domenica 25 gennaio 2015

"Graecia capta ferum victorem coepit"



Se non è stato/a il/la prof di arte, di sicuro lo abbiamo appreso grazie a Masami Kurumada e i suoi Cavalieri dello Zodiaco: Atena era una dea guerriera, vestita di tutto punto con l'armatura, l'elmo sempre calato in testa a nascondere il viso e i capelli.
La dea della strategia, che consiglia e protegge gli eroi, e non disdegna lei stessa di buttarsi nella mischia.
Una dea dal cervello sempre attivo, che si inventa l'ulivo (e l'olivocoltura), la tessitura, che suona il flauto ma si intende anche di tecniche di costruzione navale, che è fieramente vergine ma non nasconde la sua vanità, che sovrintende all'artigianato, cioè a quell'attività dove al lavoro manuale deve unirsi l'ingegno.
Atena era lo specchio e il modello di riferimento della sua città, il simbolo di una civiltà sui cui principi si basa tutt'oggi la società occidentale, e nessuno scultore più di Fidia ha saputo celebrarla.
L'ha immaginata in svariate forme, una più famosa dell'altra, ma la più bella è, forse, quella meno nota al grande pubblico: una dea della pace, con l'elmo nella mano destra al posto della Vittoria e l'Egida, la protezione che le copre il petto, spostata di lato.
Il viso ha linee morbide e un'espressione dolce, i riccioli sono ordinatamente tenuti raccolti da una fascia.
Fu realizzata per dei coloni che, da Atene, si erano stabiliti nell'isola di Lemno e da essi fu donata all'Acropoli.
Pensando alle notizie che giungono stasera da Atene mi è venuto spontaneo pensare a lei e alla grande dignità che il popolo greco ha manifestato in questi anni difficili.
Non so cosa ci attenderà nei prossimi mesi, se Alexis Tsipras saprà, come mi auguro, tener fede alle promesse che gli hanno permesso di conquistare questo storico risultato ma comunque vada spero che sia la dea Atena a guidare la sua mano, e il cammino del dialogo con Bruxelles.
Perché in questi tempi bui di rigurgiti fondamentalisti è bene guardare a ciò che è sempre stato sinonimo di giustizia e intelligenza, di pace e prosperità.
Guardare ad Atene, guardare ad Atena, guardare a una politica che riparta dal senso di fratellanza che unisce i popoli del Mediterraneo.
Perché quel "una fazza, una razza" non è soltanto la battuta di un film di Salvatores.
È ciò che siamo tutti, e stasera un po' di più.

giovedì 8 gennaio 2015

Dumpennente


È da quando ho appreso la notizia dell'attentato alla sede della rivista Charlie Hebdo che penso, e continuo a pensare, che il vero problema della nostra società non stia tanto nell'integrazione, quanto nella rimozione di certi concetti, nel loro relegarli nuovamente alla sfera del tabù. Prendete i grandi giornali americani, ad esempio: c'è chi, nel riportare la notizia, si è posto il dubbio se pubblicare o meno le vignette. È una domanda cretina, prima ancora che assurda, perché niente riuscirà a far capire meglio il vuoto che questa mattanza crea che far conoscere il lavoro di chi ne è rimasto vittima, in nome di un presunto dovere di non offendere determinate minoranze.
Io ho profondo rispetto per le minoranze (e anche maggioranze) religiose, ma sono di Roma, la città del papa re e di Pasquino, di Belli e di un dialetto costruito in gran parte storpiando il latino liturgico, so quanto ha fatto e quanto può fare per il progresso della civiltà dissacrare ciò che viene considerato intangibile.
E lo sapeva anche un signore di nome Anthony Burgess, che voi conoscerete sicuramente per essere l'autore di quell' Arancia Meccanica da cui Kubrick trasse uno dei suoi capolavori: Burgess a Roma scoprì Belli, lo immaginò amico di Keats, li vide insegnarsi l'un l'altro l'arte di ridere della disperazione.
Abba Abba è un libro piccolo, più quasi un esercizio di stile che un romanzo, in cui Burgess esprime tutta l'ammirazione per questo dialetto straordinario capace di nominare il cazzo con una parola presa dal testo dello Stabat Mater.
Dumpennente - dum pendebat.
Un batacchio che pende, moscio, tra le cosce come il corpo morto di Cristo pende dalla croce.
Mentre osservavo inorridita, come tutti, le immagini dell'attentato, una parte di me è tornata a quell'immagine, a quella capacità di smontare col riso e con la ferocia della parola il male, di denudarlo agli occhi del mondo coprendolo di ridicolo.
Charlie Hebdo è una delle poche isole felici in cui questa sana pratica non solo viene portata avanti, ma rivendicata con orgoglio.
L'unico modo che mi viene in mente per rendere loro giustizia è tornare a riappropiarsene tutti.
Qui la questione non è tanto, e solo, l'integrazione, la lotta al terrore, la rivendicazione di una presunta superiorità morale.
Qui la questione è la libertà di espressione, che si difende con la penna e con la lingua.
E allora, visto che le vignette di Charlie Hebdo potete trovarle ovunque, ma il libro di Burgess è un po' più difficile da reperire, lasciate che vi regali l'omaggio al dumpennente.
Che poi è un omaggio alla giovinezza perduta di Keats, a Belli, e alla vita che non è quella confinata nelle chiese.
Indipendentemente da quale confessione siano.

"Stasera sono molto sciocco. Certamente. Un sonetto sul pene, con la coda. Giusto, molto giusto. Chi è il suo amico?"
"Un uomo attratto da interessi contrastanti; dalla rispettabilità, perfino dalla santità, e dalla vita squallida e sofferta di questa città sacra e profana che il governo papalino ha reso, almeno in superficie, ottusa e conformista. Vede, signore, possiamo amare i nostri papi spiritualmente, ma, nella sfera secolare, esserne affatto scontenti. Come che sia. Se lei a Roma vuole il riso, troverà il riso nell'oscenità della disperazione."
"Questa", disse John, la faccia rilucente al bagliore delle candele del pianoforte, "è una bella espressione. L'oscenità della disperazione. Proprio così."
"Voglio regalarle una bella parola" disse Gulielmi "che non troverà in Dante. È per l'organo maschile, ed è dumpennente. Non è bella?" [...]
"Portando con sé un solitario dumpennente" disse John. Assaporò quella parola deliziosa. "Duuuuuum... un pene pendulo, penoso, una piccola appendice."
"Proprio così. Vede come funziona il linguaggio romanesco? Una enne e una di di seguito diventano una doppia enne. L'origine, naturalmente, è nel latino dum pendebat. Riesce a cogliere l'allusione? No? 
Stabat mater dolorosa, apud lignum lachrymosa, dum pendebat filius.
"Un'empia allusione, se posso." disse Severn senza che fosse stato richiesto il suo parere. [...]
"Via, Mister Severn, l'avevo presa per una persona di fede riformata. È il nostro Stabat Mater, non il vostro, e possiamo essere un po' blasfemi, se ci va."
"La blasfemia è blasfemia."
"Una e indivisibile" disse John allegramente. "Severn prende il suo Stabat Mater da Haydn o Mozart, o non so da quale altro autore. Ma che meraviglia: dum pendebat, mentre Lui pendeva. Dalla croce, fra le cosce. È veramente squisito, e non ha nulla di etereo. Questa è della buona ironia inguinale. Mi ha fatto un bel regalo, signor Gulielmi."