mercoledì 12 marzo 2014

Scrittura al Cinema: Dodici anni schiavo

Lucio Fontana, Attese (1968). Sul perché ci arriviamo.

In principio furono Hunger e la rappresentazione Rinascimentale di Cristo (il tema della Pietà, soprattutto); poi venne Shame e il suo rapporto con Hopper. Adesso siamo a Dodici anni schiavo e sembra che tutto sia cambiato, che lo stile così peculiare di Steve McQueen si sia piegato all'esigenza di una narrazione di stampo prettamente hollywoodiano.
Sembra, appunto.

Chiaro, no?

Lucio Fontana è quell'artista che squarciava le tele per tentare di uscire da una rappresentazione bidimensionale dello spazio: la prospettiva ha dato quel che ha dato, da innovare c'è poco, l'unico modo è andare oltre. 
Bucare, appunto. 
Creare fessure attraverso le quali entrare in realtà sconosciute.
Il corpo, per McQueen, è sempre stato qualcosa di molto simile: una superficie da plasmare, dimagrire, dilaniare, umiliare, coprire di cicatrici per consentire allo spettatore di specchiarsi e di farsi delle domande.
Il Bobby Sands di Hunger era lo squarcio che tagliava il velo di ipocrisia che troppo a lungo ha coperto Long Kesh, capace di creare una perfetta simmetria tra la realtà della guardia e quella del detenuto appena arrestato.
Il Brandon di Shame era lo squarcio che tagliava il velo di ipocrisia con cui la coscienza vela le nostre dipendenze, l'affondo al basso ventre delle pulsioni primordiali.
Il corpo di Solomon Northup è, invece, qualcosa di diverso, una specie di passaggio attraverso il quale l'occhio di noi bianchi del XXI secolo può tornare alla Louisiana delle piantagioni di cotone, e quello dell'America è costretto a fissare la sua pagina più buia.
Il Solomon Northup di Steve McQueen, così come quello del testo tenacemente difeso dalla storica Sue Eakin, la cui storia si meriterebbe parimenti di essere raccontata al cinema, è un testimone nel senso Leviano del termine: sta lì per permetterci di vedere altro, le storie di chi in schiavitù è nato e in schiavitù morirà.
Come il taglio nella tela di Fontana dà risalto a quella superficie sulla quale viveva senza prestare particolare attenzione: in questo senso mi ha molto impressionata la scena, passata quasi sotto silenzio in tutte le recensioni che ho letto finora, dell'episodio dell'emporio: un uomo di colore entra e sia Solomon che il proprietario lo trattano come un qualsiasi cliente, ma quando viene il padrone a reclamarlo nessuno dei due dice o fa qualcosa per ribellarsi, rassicurati dalla propria condizione di privilegiati.
Ma il privilegio è qualcosa di effimero e quando Solomon ritornerà ai ricordi della vita prima della schiavitù non potrà che rivederla come un sogno.
Qualcosa che non esiste perché non esiste più la condizione di base che l'aveva resa possibile, ovvero la libertà.
All'apice del suo momento peggiore è la richiesta di una donna di darle piacere a riportare Solomon agli anni in cui era ancora un uomo felice, a ricordargli che la vita non è solo dolore e fatica, che lui è un essere umano e non una bestia da soma.
In quest'apertura così particolare c'è il collegamento con Hunger, quando il prigioniero appena arrestato mostra allo spettatore la sua natura ancora viva masturbandosi col rimasuglio della foto della sua ragazza.
Ma un altro collegamento è possibile con La Città Incantata di Hayao Miyazaki, quando la vecchia strega impone come condizione per il ritorno alla libertà di Chihiro che lei non dimentichi il suo vero nome.
È il nome, infatti, il primo elemento che definisce la nostra personalità e la nostra unicità, gli schiavi sono costretti a cambiarlo a seconda del padrone (Solomon Northup diverrà prima Platt Ford e poi Platt Epps, dai cognomi dei suoi due padroni).
Per privarglielo il suo carceriere lo frusta fin quasi a ucciderlo, trasformando la schiena di Solomon in una tela non dissimile da quella di Fontana: le frustate aumentano il valore dell'individualità della persona che le riceve, che per proteggerla la chiuderà dentro di sé, affidando al legno, invece, la memoria dei nomi della moglie e dei figli.
E qui entriamo nel gioco dei parallelismi, altra caratteristica fondante del cinema di McQueen: il corpo è un violino che suona solo se tenuto con cura, che viene inciso e spezzato per sfregio quando il protagonista sente di non avere più futuro.
La vita libera è la proiezione di cosa sarebbe il mondo senza schiavitù, e i padroni sembrano l'uno il doppio dell'altro.
Ma è soprattutto nella componente femminile che il gioco degli specchi e il valore di testimone di Solomon acquisiscono il loro reale valore: Eliza è lo specchio in cui si riflette l'opportunismo di padron Ford, gentile con gli schiavi solo per trarne maggiormente profitto; ma Eliza è anche il doppio di Patsey, con la quale condivide la triste sorte, e il negativo della signora Shaw, che rappresenta il culmine dell'ideale parabola del destino di una schiava. Patsey vede nella signora Shaw un modello a cui aspirare, ignorando il destino di Eliza, che invece anticipa la disgrazia.
Speculari sono anche i personaggi delle padrone Ford e Epps, algide e distanti, relegate su portici e balconate come astri che gli schiavi possono solo ammirare da lontano.
La distanza fisica, lo spazio, il ritmo del respiro, dei suoni e del canto sono le vere colonne sonore del film, e giocano, anche qui, sui contrasti: il respiro affannato del Solomon arrostito dal sole contrasta con la placida calma della rigogliosa vegetazione della Louisiana, e con le scene di vita domestica che sembrano svolgersi in un universo parallelo.
Solomon sembra sempre estraneo a questi ritmi, che siano quello dell'acqua smossa dal battello o quello dei campi.
Vi si abbandona nel momento in cui perde completamente la speranza, capendo e facendo capire allo spettatore quanto davvero queste struggenti canzoni fossero l'ancora di salvezza a cui gli schiavi si aggrapparono per non affondare.
La voce, così come in Hunger la fame, sono le uniche armi per contrastare la barbarie del mondo.
Il corpo è uno scudo, un guscio, un violino: inciso dall'orrore non suonerà più dolci melodie, ma dolenti canti di denuncia che, come il libro di Northup, hanno portato fino alle nostre orecchie la tragedia della schiavitù.
Tragedia che, però, il film non relega solo nel passato: in più punti della pellicola, così come nell'Acceptance Speech agli Oscar, McQueen ci ha teso ha sottolineare quanto il lavoro schiavistico (un lavoro svuotato dei diritti di chi lo compie) sia ancora alla base della nostra economia.
Produrre, produrre, produrre, ignorando i bisogni di chi produce: se Dodici anni schiavo parla all'America e all'Occidente, non è solo per riportare a galla il passato.

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