giovedì 28 agosto 2014

[Racconto] Giro a vuoto



Giro a vuoto


Il mattino è un commesso solerte e Roma una cliente annoiata.
Contrattano perché non hanno nient'altro di meglio da fare se non contendersi qualche straccetto. 
Io le sento, le mani sulla giacca che tirano ora di qua ora di là, sento lasciare la presa e poi riprenderla con maggior forza.
Dipende da quanto il sole riesce a far penetrare le dita attraverso gli ombrelli dei pini.
È quel periodo della primavera che comincia già a sapere d'estate, quando il diaframma che divide i vetri dalle tende rimarca i suoi contrasti permettendo di leggere meglio i dettagli di vite che non ci riguardano e che non ci interessano. Ma la curiosità è un'attitudine, la noia una nemica e il sole di mezzogiorno un complice.
C'è un po' di tristezza in una vita che ti permette di passeggiare nell'ora in cui l'aria è pregna di odore di caffè e dell'eco dei telegiornali, e hai di fronte a te un fiume stagnante e la prospettiva di ore tutte uguali che non sai come riempire.
L'attesa del niente che ti fa sentire fuori posto, che ti fa sembrare il granello di sabbia che ostacola l'ingranaggio.
Invidio i turisti che sembrano avere in tasca tutte le risposte, ripiegate in forma di mappa con i percorsi evidenziati.
Invidio chi riesce a programmare le cose e a portarle a termine senza lasciarsi distrarre.
Perfino mangiare, certi giorni, mi da noia, perché mi sembra di aver provato tutto e di non avere nient'altro da scoprire.
Eppure il cibo è il più intimo dei piaceri, quello che mescola ricordi e aspettative, mangiare è il senso del presente e del futuro.
Il perpetrarsi del passato.
Il retrogusto di carta che il tramezzino prendeva quando veniva racchiuso nella stagnola, che il fiume porta a galla dagli abissi della memoria assieme a una manciata di immagini di una gita fatta da ragazzo.
La gazzosa col vino, il cremino che sapeva di salmastro, la pizza unta che non è mai stata così buona come mangiata sotto un ombrellone.
Il fiume langue e io mi sciolgo in lui, sopraffatto da una stanchezza che non so spiegare.
Forse è il caldo, o il torpore dell'ora che sembra appesantire anche le ali dei cormorani.
Roma è una città che non regala confidenze nemmeno al sole che le accarezza la pelle di pietra con le sue mani sudate, figuriamoci a me che la attraverso da quarant'anni come un estraneo che non ricerca particolari confidenze.
Ci osserviamo, ciascuno sulla propria sponda, ci salutiamo cordialmente, ma niente di più.
La città vive tempi più lunghi di quelli che riusciamo a immaginare per noi stessi, conosce l'imprevedibilità dei cambiamenti e vi si adegua con un lieve sospiro.
-Passerà anche questa.- si dice.
Io non sono sicuro di poter dire lo stesso.
Il male di cui soffro è la vita che finisce e l'angoscia di sapere di non aver concluso niente.
Avevo un talento, ma l'ho annegato nel bicchiere del primo drink che mi sono concesso, al culmine della prima festa in cui ho capito che l'essere considerato importante era, per me, più importante che il diventarlo.
E così ho finito per fare la fine di Roma e non concedermi mai nulla che non fossero sfizi superficiali, mettendo una distanza di sicurezza tra me e i pericoli che il vivere la vita comporta.
Non ho corso tutti i rischi che avrei dovuto, né preso posizione, ho solo oziato, languidamente adagiato su uno strato di maschere dipinte. 
Non mi è mai interessato frantumarle, perché in esse c'è una bellezza unica fatta di smalti brillanti, di forme rassicuranti perché fissate nella terracotta.
Un monte di cocci che si sfalda sotto la suola delle scarpe.
La vita che brulica posso lasciarla all'immaginazione, perché la definisca con contorni meno spigolosi.
Io non sono un archeologo che spacca la terra a caccia di verità.
Io coltivo, anche se non sono certo che questa terra fatta di niente dia, un giorno, i suoi frutti.
È questa l'inquietudine, è questo il giro a vuoto.



lunedì 18 agosto 2014

[Racconto] Eppure volevo essere nuvola



-Ho sempre apprezzato il tuo rimanere nell'ombra, ma un ritratto così piccolo...
-Ritratto su gemma, mio Imperatore. Piccoli segni incisi su superfici preziose. 
-Ti ritenevo un amante del bello.
-Lo sono. E di ciò che è eterno. Per questo rifuggo il marmo.
-Il marmo non è eterno? Attento a quel che dici, mio caro Mecenate: se non ti conoscessi da così tanto direi che stai offendendo il lavoro che abbiamo fatto assieme per la nostra amata Roma.

È raro osservare i tratti del viso del princeps rilassati: Mecenate è uno dei pochi che ha potuto goderne in più occasioni, senza farne un vanto inopportuno. Cesare Augusto si è adattato fin da adolescente alla maschera che voleva venisse tramandata di lui, curve spigolose su bianco marmo di Luni.
Luce assoluta e tracce di colore che non ammettono sfumature.
Eppure eccolo lì a imitare il sorriso dell'adolescente timido e malaticcio che conobbe ad Apollonia, una smorfia così goffa e spontanea da risultare, per contrasto, aggraziata, come tutto era aggraziato in quella creatura così fuori del comune, a cui Mecenate sentì di dovere lealtà assoluta fin dal primo istante.

-La tua Roma sopravviverà a ogni epoca. Chi potrebbe saperlo meglio di noi? Ma un umile blocco di marmo, invece... la sua fine è, spesso, la caldara. La cottura e la trasformazione in calce viva. I ritratti non sopravvivono a lungo quanto la gloria dell'uomo che raffigurano o la grandezza della città che ha edificato. A meno che non siano incisi su un supporto prezioso che non possa essere riutilizzato. Per questo scelgo le gemme. Chi potrebbe mai fondere un'ametista?
-Già. Chi mai potrebbe?

Cesare Augusto sposta lo sguardo verso il mare, facendosi più assorto man mano che, assieme alla linea dell'orizzonte, la mente insegue vecchi ricordi.
Una volta, scherzando, Agrippa gli ha detto che Mecenate è apparso nelle loro vite come uno spirito: nessuno ricorda bene quando e perché; a lungo si è dubitato del suo fine.
Eppure la sua lealtà è sempre stata limpida, e l'affetto sincero.
Se dèi sono quelli che lo hanno mandato, Cesare Augusto si dice che sono dèi benevoli.
Dopotutto non è stato Mecenate il primo a chiamarlo Apollo incarnato, durante i loro scherzi?

-Un ritratto piccolo ed essenziale: potessi riassumere anch'io in così poco l'eredità che vorrei lasciare ai posteri! Ci sei tu, in questi tratti, eppure mi pare che non riescano a contenerti.
-Contenere non è ciò che si chiede a un artigiano.

Mecenate ha sempre usato un certo riguardo nel correggere l'amico, non solo per rispetto nei confronti del ruolo e del rango, ma perché ha sempre ritenuto di dovergli restituire, in parte, quella dolcezza che la vita gli ha negato.

-Suggerire, piuttosto: un ritratto ben riuscito permette a chi lo osserva di immaginare il soggetto come se fosse proprio davanti ai suoi occhi. Non è solo una questione di realismo o di precisione dei dettagli, ma di essenza. Che la mia risieda nel lusso è una cosa che vi siete sempre divertiti a rinfacciarmi tu e Agrippa, se la memoria non mi inganna.

Cesare Augusto è grato a Mecenate per le libertà che ama prendersi durante le loro conversazioni private, come quella di punzecchiarlo. O di punzecchiare Agrippa, costringendolo a dare sfogo ai tormenti che, con stoicismo, era solito tenersi dentro.
Il suo sole e la sua luna, così li ha sempre considerati.

E per loro io cosa sono? Il cielo? Eppure volevo essere nuvola. Una nuvola leggera che danza loro attorno.

-Tu sei sempre stato fin troppo bravo a simulare, Mecenate. O a dissimulare a seconda della convenienza. I segni incisi sulla gemma sono ciò che vuoi crediamo di te, esattamente come i poemi che commissioni ai tuoi protetti, e di cui non ti sarò mai abbastanza grato.
-Quindi dici che siamo più simili di quanto pensi?
-Per quale altro motivo la nostra amicizia avrebbe retto così a lungo, altrimenti?

Mecenate vorrebbe ribattere ricordando le gelosie di Agrippa, ma evita pensando che si tratterebbe di una cattiveria gratuita da parte sua.
Il generale è il più vulnerabile tra loro, il più fragile e sincero, a dispetto di quel che potrebbe suggerire l'aspetto imponente.
E il bene che vuole a Cesare Augusto è viscerale, tanto che le sue paure lo hanno confermato, più che metterlo in discussione.

-Se Agrippa fosse qui con noi ci avrebbe rimproverato di smettere.

Non può fare a meno di notare Mecenate.

-Ma solo perché si starebbe chiedendo cosa significhi il fatto che lui non sia come noi.

Aggiunge il princeps, curvando le labbra nel suo sorriso più malinconico.
Il suo sole è lontano, a muovere guerra ai Parti.

E quindi sì, io sono nuvola. La nuvola che ha offuscato il sole e non voleva

Mecenate comprende che il discorso sta deviando verso un terreno accidentato per entrambi, e tenta di riportarlo altrove.
Ma Cesare Augusto non lo sente.
In verità non lo ha mai fatto realmente: come Apollo, egli è un mistero impenetrabile.
Solo il pallido candore del marmo lunense si avvicina alla sua essenza, più dei tratti che vi sono scolpiti.