sabato 27 dicembre 2014

Su la testa

Non dovrei lasciarmi prendere dallo sconforto.
Ok, c'è quella questione delle quattrocento euro spese per un oggetto che non posso utilizzare perché l'assistenza, a un mese di distanza dall'acquisto, ancora non si degna di spedirmi il pezzo di ricambio, ci sarebbero le tre lezioni che non mi hanno pagato, ci sarebbe l'ennesimo rinvio dell'esame da guida turistica, ci sarebbe il laboratorio di archeologia per bambini che ancora non so quando avrò il permesso di far partire, e se per allora l'associazione con cui collaboro esisterà ancora.
Ci sarebbe che non so se ne avrò una tutta mia, e se anche fosse una volta avviata chissà se darebbe i risultati sperati.
Ho vissuto momenti peggiori, ormai l'ha capito anche la mia corazza.
E però non riesco a rilassarmi e sorridere come dovrei, perché la paura che tutto questo sia solo un'illusione mi terrorizza.
La mia corazza è spessa, ma non indistruttibile, e l'anno che sta per arrivare ha in ballo così tante cose importanti... l'esame, appunto.
L'associazione, certo.
Mio fratello, che è tornato davvero.
Parigi (e forse Venezia? Ma sì, diciamo anche Venezia).
Potrebbe essere un anno migliore di questo, o potrei arrivare a dicembre a raccogliere cocci che non si reincolleranno per l'ennesima volta.
Dipendo da troppi dipende, e non mi piace.
Quindi non dovrei farmi prendere dallo sconforto adesso, dovrei tirare il fiato, sorridere, evitare di preoccuparmi.
Le battaglie non mancheranno.
Ma vanno combattute quando si è sul campo, non quando si è ancora nella tenda.

Se proprio battaglia deve essere, che almeno sia Azio

martedì 11 novembre 2014

Nelle puntate precedenti

Una vita basta a malapena per diventare bravo in qualcosa. Quindi devi stare bene attento a quello in cui diventi bravo.

C'è questa frase, detta da Matthew McConaughew/Rust Cole in uno degli ultimi episodi di True Detecrive, che mi torna spesso in mente nelle ultime settimane, forse perché sembra descrivere bene il periodo.
Ci sono un sacco di cose di cui non ho parlato.
Ad esempio, dei due giorni che mi sono regalata a Firenze per il mio compleanno, da sola, in un albergo dove la mattina mi hanno svegliato le campane di Santa Maria del Fiore (fa tanto Julia Roberts nello spot Calzedonia, ne convengo), girovagando tra le sale degli Uffizi e della Galleria dell'Accademia, che raccontare dell'attacco di claustrofobia che m'ha preso durante la salita sulla cupola del Brunelleschi è poco elegante.
Ritrovarsi quasi in perfetta solitudine all'interno delle Cappelle Medicee, fare amicizia con gli sconosciuti.
È stato talmente bello ed appagante che sto già lavorando per rifarlo l'anno prossimo ad Atene. 
Non ho mai amato le feste e ho una lunga lista di posti che ancora non sono riuscita a visitare.
E poi mi piace l'idea di regalarmi le cose da me, senza aspettare nessuno, che le persone vanno, ma gli obiettivi raggiunti restano.
E a proposito di obiettivi: da qualche tempo ho preso a collaborare con un'associazione della mia città in qualità di archeologa: il mio primo incarico è stato progettare un laboratorio (di archeologia, appunto) per una scuola elementare, ed è piaciuto talmente tanto che coinvolgerà due classi anziché l'una prevista inizialmente.
Non vi sto a dire quanto sono felice.
Adesso sto elaborando un calendario di visite guidate per i soci, che è un buon modo di creare una rete di contatti in vista dell'esame da guida turistica, che Dio solo sa quando si terrà.
Poi c'è che mi è tornata la voglia di scrivere, anche se per ora mi vedo costretta a tenerla imbrigliata in un libro a tema archeologia, ma che tanto prima o poi sfocerà in qualcos'altro.
True detective non è stato citato a caso.
Poi ci sarebbe House of cards, ma tanto quello che potrei dire di House of cards non aggiungerebbe nulla ai meritati elogi che gli vengono tributati.
Raramente riesco a parteggiare o immedesimarmi in un personaggio femminile, ma Claire Underwood mi ha conquistata. La si sente paragonare spesso a Lady Macbeth, ma per me è molto più complessa e sfaccettata.
Una vera e propria dea della guerra, più implacabile (eppure umana) del marito Francis.

Credo di no

Insomma: è un periodo di transizione, ma finalmente le cose cominciano a muoversi per il meglio, e anche se non so a cosa porteranno, va bene così.

martedì 9 settembre 2014

Scrittura al Cinema: Fleming. Essere James Bond, non Howard Stark

Alla voce: faccia come il culo

Spezzo subito una lancia a favore dei produttori: portare sullo schermo la vita di Ian Fleming non era impresa semplice, anzi.
E non è che abbiano proprio fallito, anzi.
La vita del papà di James Bond è molto più simile a quella della sua creatura letteraria di quanto si possa immaginare, quindi ci sta che una serie che voglia omaggiarlo finisca per giocare, inevitabilmente, con citazioni e rimandi.
A patto, però, che i piani rimangano separati e, viste le due prime puntate, direi che l'impressione che ne ho ricavato non è esattamente questa: il giovane Fleming sembra una brutta imitazione di Bond, non il suo archetipo, e la serie stessa sembra uno scimmiottamento della saga cinematografica, più che la rappresentazione del contesto che l'ha generata.
C'è M, c'è Moneypenny, c'è l'agente scavezzacollo con licenza di uccidere che combatte contro cattivi cattivissimi, c'è un bel cast e l'inevitabile battuta sul Martini (sprecata troppo presto, a mio avviso), ci sono donne, c'è il lusso, c'è tutto quello che vi pare ma se l'idea di base era quella di far conoscere allo spettatore medio di Skyfall dove e come il mito di Bond ha avuto origine, l'obiettivo è stato fallito.
Perché, appunto, la storia di Fleming è stata incasellata nello schema-Bond, e non narrata con la libertà che avrebbe meritato, sondando profondità e rimarcando differenze.
L'Ian che si è visto nelle prime due puntate è un personaggio privo di spessore, esattamente come privo di spessore è Bond, che però si portava appresso un corollario di interpretazioni e significati che ben espresse Umberto Eco in un celebre saggio.
Bond è il cavaliere senza macchia e senza paura, è l'ingranaggio che fa muovere il film, Fleming era un uomo vero e molto tormentato.
Bond è il braccio armato che esegue ordini senza discuterli o interrogarsi sulla loro natura, Fleming era una pecora nera in cerca del suo posto in una famiglia a dir poco ingombrante.
E in un mondo che stava per conoscere la pagina più nera della storia del Novecento.
Non si può raccontarli usando la stessa struttura narrativa.
Insomma, capiamoci: non sto bocciando la serie in sé (più che godibile), è solo che mi aspettavo qualcosa di diverso.
Qualcosa che rendesse giustizia a quell'uomo che vide scipparsi l'alter ego dal suo interprete scozzese prima e dall'immaginario collettivo poi, e che rimase unico anche e soprattutto per la volontà di godere della vita fino in fondo.
Altro che Bond che, quando Mamma Inghilterra chiama, torna all'ovile.

"Ciao, Dominic. Apprezzo lo sforzo."

giovedì 28 agosto 2014

[Racconto] Giro a vuoto



Giro a vuoto


Il mattino è un commesso solerte e Roma una cliente annoiata.
Contrattano perché non hanno nient'altro di meglio da fare se non contendersi qualche straccetto. 
Io le sento, le mani sulla giacca che tirano ora di qua ora di là, sento lasciare la presa e poi riprenderla con maggior forza.
Dipende da quanto il sole riesce a far penetrare le dita attraverso gli ombrelli dei pini.
È quel periodo della primavera che comincia già a sapere d'estate, quando il diaframma che divide i vetri dalle tende rimarca i suoi contrasti permettendo di leggere meglio i dettagli di vite che non ci riguardano e che non ci interessano. Ma la curiosità è un'attitudine, la noia una nemica e il sole di mezzogiorno un complice.
C'è un po' di tristezza in una vita che ti permette di passeggiare nell'ora in cui l'aria è pregna di odore di caffè e dell'eco dei telegiornali, e hai di fronte a te un fiume stagnante e la prospettiva di ore tutte uguali che non sai come riempire.
L'attesa del niente che ti fa sentire fuori posto, che ti fa sembrare il granello di sabbia che ostacola l'ingranaggio.
Invidio i turisti che sembrano avere in tasca tutte le risposte, ripiegate in forma di mappa con i percorsi evidenziati.
Invidio chi riesce a programmare le cose e a portarle a termine senza lasciarsi distrarre.
Perfino mangiare, certi giorni, mi da noia, perché mi sembra di aver provato tutto e di non avere nient'altro da scoprire.
Eppure il cibo è il più intimo dei piaceri, quello che mescola ricordi e aspettative, mangiare è il senso del presente e del futuro.
Il perpetrarsi del passato.
Il retrogusto di carta che il tramezzino prendeva quando veniva racchiuso nella stagnola, che il fiume porta a galla dagli abissi della memoria assieme a una manciata di immagini di una gita fatta da ragazzo.
La gazzosa col vino, il cremino che sapeva di salmastro, la pizza unta che non è mai stata così buona come mangiata sotto un ombrellone.
Il fiume langue e io mi sciolgo in lui, sopraffatto da una stanchezza che non so spiegare.
Forse è il caldo, o il torpore dell'ora che sembra appesantire anche le ali dei cormorani.
Roma è una città che non regala confidenze nemmeno al sole che le accarezza la pelle di pietra con le sue mani sudate, figuriamoci a me che la attraverso da quarant'anni come un estraneo che non ricerca particolari confidenze.
Ci osserviamo, ciascuno sulla propria sponda, ci salutiamo cordialmente, ma niente di più.
La città vive tempi più lunghi di quelli che riusciamo a immaginare per noi stessi, conosce l'imprevedibilità dei cambiamenti e vi si adegua con un lieve sospiro.
-Passerà anche questa.- si dice.
Io non sono sicuro di poter dire lo stesso.
Il male di cui soffro è la vita che finisce e l'angoscia di sapere di non aver concluso niente.
Avevo un talento, ma l'ho annegato nel bicchiere del primo drink che mi sono concesso, al culmine della prima festa in cui ho capito che l'essere considerato importante era, per me, più importante che il diventarlo.
E così ho finito per fare la fine di Roma e non concedermi mai nulla che non fossero sfizi superficiali, mettendo una distanza di sicurezza tra me e i pericoli che il vivere la vita comporta.
Non ho corso tutti i rischi che avrei dovuto, né preso posizione, ho solo oziato, languidamente adagiato su uno strato di maschere dipinte. 
Non mi è mai interessato frantumarle, perché in esse c'è una bellezza unica fatta di smalti brillanti, di forme rassicuranti perché fissate nella terracotta.
Un monte di cocci che si sfalda sotto la suola delle scarpe.
La vita che brulica posso lasciarla all'immaginazione, perché la definisca con contorni meno spigolosi.
Io non sono un archeologo che spacca la terra a caccia di verità.
Io coltivo, anche se non sono certo che questa terra fatta di niente dia, un giorno, i suoi frutti.
È questa l'inquietudine, è questo il giro a vuoto.



lunedì 18 agosto 2014

[Racconto] Eppure volevo essere nuvola



-Ho sempre apprezzato il tuo rimanere nell'ombra, ma un ritratto così piccolo...
-Ritratto su gemma, mio Imperatore. Piccoli segni incisi su superfici preziose. 
-Ti ritenevo un amante del bello.
-Lo sono. E di ciò che è eterno. Per questo rifuggo il marmo.
-Il marmo non è eterno? Attento a quel che dici, mio caro Mecenate: se non ti conoscessi da così tanto direi che stai offendendo il lavoro che abbiamo fatto assieme per la nostra amata Roma.

È raro osservare i tratti del viso del princeps rilassati: Mecenate è uno dei pochi che ha potuto goderne in più occasioni, senza farne un vanto inopportuno. Cesare Augusto si è adattato fin da adolescente alla maschera che voleva venisse tramandata di lui, curve spigolose su bianco marmo di Luni.
Luce assoluta e tracce di colore che non ammettono sfumature.
Eppure eccolo lì a imitare il sorriso dell'adolescente timido e malaticcio che conobbe ad Apollonia, una smorfia così goffa e spontanea da risultare, per contrasto, aggraziata, come tutto era aggraziato in quella creatura così fuori del comune, a cui Mecenate sentì di dovere lealtà assoluta fin dal primo istante.

-La tua Roma sopravviverà a ogni epoca. Chi potrebbe saperlo meglio di noi? Ma un umile blocco di marmo, invece... la sua fine è, spesso, la caldara. La cottura e la trasformazione in calce viva. I ritratti non sopravvivono a lungo quanto la gloria dell'uomo che raffigurano o la grandezza della città che ha edificato. A meno che non siano incisi su un supporto prezioso che non possa essere riutilizzato. Per questo scelgo le gemme. Chi potrebbe mai fondere un'ametista?
-Già. Chi mai potrebbe?

Cesare Augusto sposta lo sguardo verso il mare, facendosi più assorto man mano che, assieme alla linea dell'orizzonte, la mente insegue vecchi ricordi.
Una volta, scherzando, Agrippa gli ha detto che Mecenate è apparso nelle loro vite come uno spirito: nessuno ricorda bene quando e perché; a lungo si è dubitato del suo fine.
Eppure la sua lealtà è sempre stata limpida, e l'affetto sincero.
Se dèi sono quelli che lo hanno mandato, Cesare Augusto si dice che sono dèi benevoli.
Dopotutto non è stato Mecenate il primo a chiamarlo Apollo incarnato, durante i loro scherzi?

-Un ritratto piccolo ed essenziale: potessi riassumere anch'io in così poco l'eredità che vorrei lasciare ai posteri! Ci sei tu, in questi tratti, eppure mi pare che non riescano a contenerti.
-Contenere non è ciò che si chiede a un artigiano.

Mecenate ha sempre usato un certo riguardo nel correggere l'amico, non solo per rispetto nei confronti del ruolo e del rango, ma perché ha sempre ritenuto di dovergli restituire, in parte, quella dolcezza che la vita gli ha negato.

-Suggerire, piuttosto: un ritratto ben riuscito permette a chi lo osserva di immaginare il soggetto come se fosse proprio davanti ai suoi occhi. Non è solo una questione di realismo o di precisione dei dettagli, ma di essenza. Che la mia risieda nel lusso è una cosa che vi siete sempre divertiti a rinfacciarmi tu e Agrippa, se la memoria non mi inganna.

Cesare Augusto è grato a Mecenate per le libertà che ama prendersi durante le loro conversazioni private, come quella di punzecchiarlo. O di punzecchiare Agrippa, costringendolo a dare sfogo ai tormenti che, con stoicismo, era solito tenersi dentro.
Il suo sole e la sua luna, così li ha sempre considerati.

E per loro io cosa sono? Il cielo? Eppure volevo essere nuvola. Una nuvola leggera che danza loro attorno.

-Tu sei sempre stato fin troppo bravo a simulare, Mecenate. O a dissimulare a seconda della convenienza. I segni incisi sulla gemma sono ciò che vuoi crediamo di te, esattamente come i poemi che commissioni ai tuoi protetti, e di cui non ti sarò mai abbastanza grato.
-Quindi dici che siamo più simili di quanto pensi?
-Per quale altro motivo la nostra amicizia avrebbe retto così a lungo, altrimenti?

Mecenate vorrebbe ribattere ricordando le gelosie di Agrippa, ma evita pensando che si tratterebbe di una cattiveria gratuita da parte sua.
Il generale è il più vulnerabile tra loro, il più fragile e sincero, a dispetto di quel che potrebbe suggerire l'aspetto imponente.
E il bene che vuole a Cesare Augusto è viscerale, tanto che le sue paure lo hanno confermato, più che metterlo in discussione.

-Se Agrippa fosse qui con noi ci avrebbe rimproverato di smettere.

Non può fare a meno di notare Mecenate.

-Ma solo perché si starebbe chiedendo cosa significhi il fatto che lui non sia come noi.

Aggiunge il princeps, curvando le labbra nel suo sorriso più malinconico.
Il suo sole è lontano, a muovere guerra ai Parti.

E quindi sì, io sono nuvola. La nuvola che ha offuscato il sole e non voleva

Mecenate comprende che il discorso sta deviando verso un terreno accidentato per entrambi, e tenta di riportarlo altrove.
Ma Cesare Augusto non lo sente.
In verità non lo ha mai fatto realmente: come Apollo, egli è un mistero impenetrabile.
Solo il pallido candore del marmo lunense si avvicina alla sua essenza, più dei tratti che vi sono scolpiti.

domenica 13 luglio 2014

La Villa di Poppea a Oplontis e ciò che non va nella questione beni culturali (secondo me)

Comincio apparecchiando la tavola e mettendo sul piatto tre pezzi utili per far da base al discorso: il primo è la lunga intervista a Roberto Saviano pubblicata su Il Post
Leggetevela tutta, perché è interessante, e perché ci tengo a precisare sin da subito che questo post non nasce come critica a Saviano in sé, ma a un atteggiamento che, purtroppo, non è proprio di Saviano e non è proprio manco solo dell'Italia.
La dichiarazione, per dovere di cronaca, è questa:

A volte mi chiedono: perché Pompei non la vendete? Usano proprio quest’espressione, per dire di affittarla. Tutti vorrebbero presentare un film o il nuovo iPhone nell’anfiteatro di Pompei. Darebbero milioni all’anno solo per un giorno, per presentare quella cosa. Una parte di me dice: che cos’è che vuoi vendere, scusa? Ma ce n’è un’altra che dice: farebbero una cosa bellissima. Peraltro ottenendo risorse, assicurando tutto: mentre adesso se una pietra cade, cade e basta. Sento già le solite voci: “così commercializzi Pompei!”. Ma quella è una zona già “commercializzata”: molto è in mano ai clan, che fanno tutto. Ristoranti, parcheggi, subappalti, tutto, da sempre. Il clan Cesarano ha Pompei. C’è una parte di Stato che lì resiste, ma tanto le hanno tolto tutte le risorse».

Il secondo pezzo, quasi complementare al primo, a cui si deve il titolo di questo post, è la notizia della concessione d'uso della Villa di Poppea a Oplontis  per un matrimonio.
Il terzo pezzo, completamente slegato dagli altri due, ma che sta proprio alla base del ragionamento che voglio provare illustrarvi è la notizia della scelta, da parte della HBO, dell'Alcazar di Siviglia come location per le riprese della quinta stagione di Game of Thrones.
Passiamo al ragionamento.
Io ho grande rispetto, stima e ammirazione per Roberto Saviano, e il punto, come già scritto sopra, non è criticarlo o ricordargli poco carinamente di tornare a parlare di ciò che conosce, e cioè la criminalità organizzata, lasciando da parte ciò che non conosce, e cioè le questioni relative alla manutenzione e allo "sfruttamento" del patrimonio artistico.
Perché l'affermazione di Roberto Saviano fa il paio, tanto per buttare là un altro pezzo a tradimento, con la proposta del sindaco di Roma Marino di usare i musei civici per ospitare concerti e sfilate.
Dichiarazioni che ignorano volutamente la natura dell'oggetto del discorso, svuotandolo di significato fino a ridurlo a mero contenitore.
Roma ha musei civici che sono autentici gioielli architettonici, come Palazzo Braschi e il Museo Barracco, scrigni di collezioni che, se ben valorizzate, potrebbero attrarre visitatori senza bisogno di inutili orpelli.
Perché è questo ciò che mi colpisce di queste notizie, di questi ragionamenti, la totale e voluta ignoranza circa la natura di ciò di cui si parla.
Saviano ha mai letto la guida archeologica di Pompei, quella scritta dai coniugi De Voos e da La Rocca?
Più in generale: chi ha mai sentito parlare o, meglio ancora, visitato le ville di Oplontis o Boscoreale?
Marino ha mai messo piede nei musei civici di cui dovrebbe occuparsi?
Chi blatera tanto, su Facebook o altrove, di musei, di differenze con la Francia, l'Inghilterra e gli Stati Uniti i nostri musei, anche solo quelli piccoli, anche solo quello del proprio comune di residenza, la storia dei musei italiani, delle collezioni che contengono, che è peculiare e molto diversa da altre realtà l'hanno mai studiata?
Perché l'impressione che ho io, ed è un'impressione che si sta rafforzando molto negli ultimi tempi, è che chi parla di musei o patrimonio artistico parli di un'entità astratta, di una principessa in pericolo da salvare, o di una mucca da mungere, o di un ostacolo da abbattere in nome del progresso (anche se quest'ultimo aspetto è un vecchio retaggio).
Chi parla di patrimonio artistico lo riduce a mero fondale, souvenir emotivo da affittare al miglior offerente.
Questo avviene per diverse ragioni, chiaro: l'ignoranza diffusa, l'impossibilità dei laureati in discipline archeologiche o storiche artistiche di trasformare la propria conoscenza in mestiere, una certa ostilità dell'ambiente accademico nei confronti della divulgazione.
Ecco, ad esempio voi non avete idea di quanto avrei voglia di parlarvi della Villa di Poppea a Oplonti, che visitai con l'università assieme a Pompei e Ercolano: un viaggio memorabile.
Mi colpisce ancora oggi il ricordo della sala da banchetto affrescata con le sue false prospettive, quel principio base della pittura romana che vede nella decorazione un mezzo per rendere una stanza chiusa aperta e più luminosa di quanto non sia realmente: colonnati con pavoni, piatti di fichi e dolci dall'aspetto modernissimo, scudi.

Un esempio
Ve ne parlerei fino a farvene innamorare perché, secondo me, quello che manca al nostro patrimonio artistico è soprattutto l'amore non tanto dei singoli, quanto della collettività tutta.
E qui veniamo al punto: pretendere di valorizzare i nostri siti svendendoli manco fossero sale banchetto significa, innanzitutto, essere convinti che non abbiano un valore proprio, e che per ottenerlo abbiano bisogno di quantificarne uno economico.
Niente di più falso: un sito che ha secoli, se non millenni, sa reggersi perfettamente in piedi sulle sue gambe, dal punto di vista dell'appeal. Il problema è, semmai, comunicativo: quello che manca all'Italia è chi sappia raccontare il patrimonio, chi sappia farne innamorare il grande pubblico.
Come ho già detto altrove in questo periodo sto studiando per il concorso di abilitazione a guida turistica e nelle discussioni in rete ho letto commenti a dir poco aberranti di persone iscritte che, non avendo mai aperto un libro d'arte in vita loro, si lamentano per l'ampiezza del programma e lo scarso tempo che hanno per recuperare le lacune.
Che è più o meno come iscriversi all'esame di abilitazione alla professione di medico senza essere laureati in medicina, e lamentarsi di dover recuperare in pochi mesi sei anni di esami e tirocini.
La cosa triste è che non è nemmeno colpa loro, ma della Provincia che permette l'iscrizione a chi ha un diploma superiore di qualsiasi tipo, senza restringere il campo a chi, il patrimonio artistico, magari lo ha studiato così a fondo da arrivare a conseguire un dottorato.
È in questo modo che si svaluta una professione e, appunto, si riduce a mera macchina da soldi quella che è l'essenza della nostra cultura, e non in senso metaforico ma reale, sono le fondamenta sul quale si regge il pavimento su cui poggiamo i piedi.
Ma, e qui arriviamo alla conclusione, questo purtroppo non è solo un problema italiano.
L'Alcazar di Siviglia e Game of Thrones, dicevamo: che senso ha?
Non per le riprese in sé, sia chiaro, ma per il presunto indotto turistico che esse dovrebbero procurare: ne ha davvero bisogno, la Spagna? Possibile che per valorizzare le sue bellezze e la sua storia abbia bisogno di attirare gente che si farà selfie con la maglietta di casa Martell, fregandosene di ciò che ha realmente attorno?
Ha senso legare l'immagine di un luogo così bello a un telefilm che tra qualche anno ci saremmo dimenticati, vista l'alta frequenza con cui vengono sfornate serie nuove ogni anno?
Mi ricorda un po' le prese in giro (sacrosante) ai turisti che andavano a vedere Castel Sant'Angelo per via di Angeli e Demoni.
È davvero solo così che si crea nuovo indotto? Soprattutto: è davvero questo il tipo di indotto turistico che si vuole?
Non lo dico con disprezzo, io amo Game of Thrones e mi sono fatta più che volentieri una foto sul di cui trono, ma la cornice era quello di una fiera del fumetto.
Diciamo che se mi trovassi a Belfast, luogo del set originale, la mia priorità non sarebbe andare a visitare quello, quanto piuttosto i luoghi simbolo della sua storia.
La vera storia di una vera città tormentata e schiacciata da una dolorosa guerra civile, peraltro tutt'altro che conclusa.
E lo stesso farei in Spagna, o in Croazia, o in qualunque altro luogo.
Perché si dovrebbe viaggiare per immergersi in una cultura diversa, scoprire una storia a noi sconosciuta, non per inseguire riflessi della nostra confortante vita casalinga.
I siti di valore storico, i musei, non sono scatoloni vuoti da riempire di figuranti, e non sono nemmeno santuari che devono incutere timore: sono parte di noi, devono essere percepiti come parte di noi, devono essere raccontati come parte di noi.
Ai cittadini vecchi e nuovi, a chi vive qui da sette generazioni e a chi è arrivato ieri, ai turisti di passaggio o a chi non metterà mai piede oltre i confini provinciali.
La nostra arte, la nostra storia, sono biglietti da visita e carte di identità che presentiamo al mondo.
Affidereste mai un documento del genere a un perfetto sconosciuto?
Io no.
Non dovrebbero farlo nemmeno i governi.

venerdì 4 luglio 2014

Consigli di lettura: Il cardellino, di Donna Tartt

Scommettete che a fine lettura vorrete il poster in camera?
Comincerò questo post con una digressione.
Avete mai sentito parlare di Edward C. Harris?
No?
Non preoccupatevi: a meno che non siate laureati in archeologia è perfettamente normale.
Perché Edward C. Harris è, appunto, un archeologo, per la precisione l'archeologo che ha formulato le regole dell'attuale metodologia di scavo. Nello specifico l'aneddoto più interessante che lo riguarda è quello legato alla nascita di un particolare schema, il "Matrix di Harris" che è uno degli strumenti di studio più importante per chi lavora sul campo. Harris si formò nel cantiere della Lower Brook Street di Winchester, dove vennero asportati con chirurgica precisione qualcosa come diecimila strati di terreno.
Ora, a meno che voi non siate tra i convinti sostenitori della tesi per cui l'archeologo è una figura a metà tra il contrabbandiere e il detective sempre a caccia di tesori dovreste sapere (e se non lo sapete ve lo dico io) che in realtà questo lavoro è più vicino ai rilievi della polizia scientifica dopo un delitto, il che equivale a dire, in altre parole, che il fine ultimo di uno scavo è ricostruire la storia di una precisa area geografica basandosi su indizi concreti, materiali e non.
Capirete che un'indagine da diecimila e rotti strati di terra è un affare un ciccinello complicato, ed ecco che Harris, per far fronte alle difficoltà, elabora l'idea per uno schema che metta, appunto, in relazione e ordine tra di loro gli strati scavati.
Perché vi ho raccontato tutto questo, quando la foto in alto e la sinossi che potete facilmente reperire ovunque dicono che il romanzo parla di tutt'altro?
La risposta è che il protagonista di questo bellissimo romanzo (premio Pulitzer meritatissimo, tra l'altro), Theodore Decker, mi ha ricordato molto, moltissimo Harris: la sua vita è stata un enorme casino privo di logica e l'unico modo che ha per orientarvisi (e far orientare, di conseguenza, noi lettori) è sedersi a un tavolino e cominciare a raccontarla.
In prima persona, sempre e comunque dal suo punto di vista (espediente narrativo, questo, particolarmente utile per rendere colpo di scena qualche passaggio di trama che con un narratore onnisciente non sarebbe stato tale), da un metaforico inizio a una metaforica fine che non sono nascita e morte in senso anagrafico, ma perdita fisica (enorme, incolmabile) e rinascita interiore, fine e inizio del rapporto con il dipinto che da il titolo al libro e che potete ammirare in apertura di post.
Theo ha una storia incredibilmente simile al quadro a cui si lega in maniera ossessiva, e solo mettendo ordine nelle vicende che li hanno tenuti legati per anni potrà trovare una sorta di salvezza.
Si è parlato, nelle recensioni, di un romanzo ibrido che è per metà romanzo di formazione e metà thriller: credo ragionevolmente che non sia né l'uno né l'altro.
Il cardellino è una catarsi, lenta e lunga come è giusto che una catarsi sia, per costruire la quale Donna Tartt si affida a Dickens, Salinger e Dostoevskij (quello de L'Idiota, e Dio solo sa quanto abbia apprezzato il modo in cui l'ha citato) ma come mattoni e calcestruzzo, non certo come fondamenta.
Il romanzo, infatti, parla di altro: Theo è Il cardellino ma a questo quadro rimane incatenato da una serie di coincidenze che però, in qualche modo, e senza alcun disegno particolare a monte, lo spingono a intraprendere un mestiere preciso, quello di antiquario che, come capirà solo alla fine, è per lui più di un lavoro, ma lo scopo stesso della sua esistenza.
Ci vorranno un mare di peripezie, persone perse e persone ritrovate, amori perduti e amori creduti tali, per arrivare a farglielo ammettere, e a farlo capire a noi lettori.
Il contatto ravvicinato con quel dipinto ha forgiato Theo, e la storia di Theo finisce per conferire valore aggiunto a quella del dipinto: Donna Tartt riesce ad andare oltre le considerazioni più ovvie sull'importanza che l'arte ha non solo per noi inteso come genere umano, ma proprio per noi in quanto singoli individui, mettendo sul piatto un punto di vista poco esplorato.
A questo proposito io trovo ammirevole anche solo la maestria nell'essere riuscita a creare un libro non partendo dall'ennesima opera perduta, ma da un dipinto realmente esistente e perfettamente al suo posto: la sospensione dell'incredulità non subisce mai scosse, anzi.
In definitiva, se siete persone di poche pazienza non so quanto consigliarvi questa lettura.
Ma se siete persone curiose, sempre disposte a farsi domande su se stessi e su come nascano le passioni che ci definiscono (cioè quelle che decidono della nostra vita e carriera), allora questo è il testo che fa per voi.

giovedì 12 giugno 2014

Volere/Guidare

E così mi sono iscritta all'esame di abilitazione per diventare guida turistica, che essendo quello per la provincia di Roma è, praticamente, il più difficile d'Italia: non solo bisogna conoscere a menadito tutta la storia (artistica e non) della Capitale, ma anche includere il patrimonio provinciale, con siti come Villa Adriana, Ostia antica, la necropoli etrusca di Cerveteri, il santuario di Palestrina, etc... più, naturalmente, la parte legislativa.
Ho stabilito un piano di studio che parte dal generale e poi si ramifica per arie tematiche, ma sono comunque terrorizzata dalla mole di lavoro.
La selezione è molto dura: al precedente esame si sono iscritte oltre 2000 persone, hanno passato lo scritto in cento e si sono abilitati, alla fine della fiera, in poco più di cinquanta.
Con l'abolizione delle norme contenute nel decreto Bersani non posso neanche godere delle semplificazioni previste per i laureati in archeologia, se  i miei studi mi aiuteranno sarà soltanto a non annegare nell'ansia.
Ci tengo molto a ottenere questa abilitazione professionale, è il lavoro che voglio fare e ho già parecchie idee a riguardo.
Sarebbe carino se, per una volta, la vita decidesse di non prendermi a schiaffi e mi lasciasse prendere questa bella rivincita.
Io, da parte mia, voglio metterci tutto l'impegno possibile, magari riprendendo contatto con quella parte di me che avevo scelto, sbagliando, di soffocare.
Quella parte che è stata calpestata e ferita e che fa ancora fatica a passare di fronte al Colosseo senza sentirsi a disagio, facile preda di brutti ricordi, con la testa bassa e gli occhi fissi sulla punta di scarpe non da cantiere.
Ho voglia e bisogno di vincere.
Riuscirà nell'impresa la nostra eroina?
Chi lo sa, però intanto meglio rimettersi a leggere la guida rossa del Touring Club.

Frances Ha, nume tutelare di chi deve rivedere i propri obiettivi.

domenica 4 maggio 2014

Rimanga in linea



E poi succede che ti ritrovi a citare Fontana perché quella in attesa sei tu, e non aggiorni perché qualunque cosa scrivessi potrebbe essere smentita da un momento all'altro, in un senso o nell'altro.
Intendiamoci, è una sensazione piacevole, se paragonata all'ansia e alla sfiducia degli anni scorsi.
Chi dice che nella vita avere un'idea chiara di cosa diventare è già qualcosa ha ragione.
Però, però.
Però succede che quando ti ritorna la voglia di muoverti e fare cose e vedere gente dover restare legata al palo è una tortura, dover restare zitta per scaramanzia quando vorresti parlare per ore di una cosa e una soltanto a chiunque, compresi gli sconosciuti per strada, è imbarazzante.
Essere consapevoli del proprio cammino ma non essere ancora lì dove vorresti essere fa sentire scemi, per certi versi.
E quindi continui a buttare giù righe a vuoto, e ad appuntare sul telefono idee su idee per racconti vari ed eventuali.
Perché un'altra cosa bella di cui posso scrivere senza problemi è che la voglia di raccontare storie (che è più di scrivere) è tornata.
In coppia (ma se n'è mai realmente andata, quella? No, infatti) ma soprattutto da sola.
C'è Maurice, che è una specie di omaggio al Tenente Colombo, buttato però in mezzo a uno scenario alla White Collar.
Maurice che va a braccetto con la mia ultima fissazione, il recupero delle storie originali di Arsenio Lupin, quelle scritte da Maurice Leblanc.
C'è questa cosa strana per cui ci ricordiamo tutti che Sherlock è di Conan Doyle, James Bond è di Fleming, ma mai che Lupin è di Leblanc.
E non solo per via di Monkey Punch e di Miyazaki.
Lupin è una foto in bianco e nero, un'icona senza tempo che sembra nascere dal nulla.
Ladro e gentiluomo, vintage e tecnologia ultramoderna.
Neal Caffrey ne è solo l'ultima declinazione, prima ancora c'era stata la banda di Danny Ocean, la scena bellissima della capoeira di Vincent Cassel.
E prima ancora, prima ancora perfino di Monkey Punch, Diabolik di cui mi ha fatto innamorare mamma.
Spero proprio che Sky Italia riesca a produrre la serie, e che sia bellissima, e che faccia dilagare di nuovo la moda.
Io, intanto, mi porto avanti e modello il mio ladro per il mio agente finto imbranato.
Che per ingannare l'attesa non c'è niente di meglio che darsi alla leggerezza.

mercoledì 12 marzo 2014

Scrittura al Cinema: Dodici anni schiavo

Lucio Fontana, Attese (1968). Sul perché ci arriviamo.

In principio furono Hunger e la rappresentazione Rinascimentale di Cristo (il tema della Pietà, soprattutto); poi venne Shame e il suo rapporto con Hopper. Adesso siamo a Dodici anni schiavo e sembra che tutto sia cambiato, che lo stile così peculiare di Steve McQueen si sia piegato all'esigenza di una narrazione di stampo prettamente hollywoodiano.
Sembra, appunto.

Chiaro, no?

Lucio Fontana è quell'artista che squarciava le tele per tentare di uscire da una rappresentazione bidimensionale dello spazio: la prospettiva ha dato quel che ha dato, da innovare c'è poco, l'unico modo è andare oltre. 
Bucare, appunto. 
Creare fessure attraverso le quali entrare in realtà sconosciute.
Il corpo, per McQueen, è sempre stato qualcosa di molto simile: una superficie da plasmare, dimagrire, dilaniare, umiliare, coprire di cicatrici per consentire allo spettatore di specchiarsi e di farsi delle domande.
Il Bobby Sands di Hunger era lo squarcio che tagliava il velo di ipocrisia che troppo a lungo ha coperto Long Kesh, capace di creare una perfetta simmetria tra la realtà della guardia e quella del detenuto appena arrestato.
Il Brandon di Shame era lo squarcio che tagliava il velo di ipocrisia con cui la coscienza vela le nostre dipendenze, l'affondo al basso ventre delle pulsioni primordiali.
Il corpo di Solomon Northup è, invece, qualcosa di diverso, una specie di passaggio attraverso il quale l'occhio di noi bianchi del XXI secolo può tornare alla Louisiana delle piantagioni di cotone, e quello dell'America è costretto a fissare la sua pagina più buia.
Il Solomon Northup di Steve McQueen, così come quello del testo tenacemente difeso dalla storica Sue Eakin, la cui storia si meriterebbe parimenti di essere raccontata al cinema, è un testimone nel senso Leviano del termine: sta lì per permetterci di vedere altro, le storie di chi in schiavitù è nato e in schiavitù morirà.
Come il taglio nella tela di Fontana dà risalto a quella superficie sulla quale viveva senza prestare particolare attenzione: in questo senso mi ha molto impressionata la scena, passata quasi sotto silenzio in tutte le recensioni che ho letto finora, dell'episodio dell'emporio: un uomo di colore entra e sia Solomon che il proprietario lo trattano come un qualsiasi cliente, ma quando viene il padrone a reclamarlo nessuno dei due dice o fa qualcosa per ribellarsi, rassicurati dalla propria condizione di privilegiati.
Ma il privilegio è qualcosa di effimero e quando Solomon ritornerà ai ricordi della vita prima della schiavitù non potrà che rivederla come un sogno.
Qualcosa che non esiste perché non esiste più la condizione di base che l'aveva resa possibile, ovvero la libertà.
All'apice del suo momento peggiore è la richiesta di una donna di darle piacere a riportare Solomon agli anni in cui era ancora un uomo felice, a ricordargli che la vita non è solo dolore e fatica, che lui è un essere umano e non una bestia da soma.
In quest'apertura così particolare c'è il collegamento con Hunger, quando il prigioniero appena arrestato mostra allo spettatore la sua natura ancora viva masturbandosi col rimasuglio della foto della sua ragazza.
Ma un altro collegamento è possibile con La Città Incantata di Hayao Miyazaki, quando la vecchia strega impone come condizione per il ritorno alla libertà di Chihiro che lei non dimentichi il suo vero nome.
È il nome, infatti, il primo elemento che definisce la nostra personalità e la nostra unicità, gli schiavi sono costretti a cambiarlo a seconda del padrone (Solomon Northup diverrà prima Platt Ford e poi Platt Epps, dai cognomi dei suoi due padroni).
Per privarglielo il suo carceriere lo frusta fin quasi a ucciderlo, trasformando la schiena di Solomon in una tela non dissimile da quella di Fontana: le frustate aumentano il valore dell'individualità della persona che le riceve, che per proteggerla la chiuderà dentro di sé, affidando al legno, invece, la memoria dei nomi della moglie e dei figli.
E qui entriamo nel gioco dei parallelismi, altra caratteristica fondante del cinema di McQueen: il corpo è un violino che suona solo se tenuto con cura, che viene inciso e spezzato per sfregio quando il protagonista sente di non avere più futuro.
La vita libera è la proiezione di cosa sarebbe il mondo senza schiavitù, e i padroni sembrano l'uno il doppio dell'altro.
Ma è soprattutto nella componente femminile che il gioco degli specchi e il valore di testimone di Solomon acquisiscono il loro reale valore: Eliza è lo specchio in cui si riflette l'opportunismo di padron Ford, gentile con gli schiavi solo per trarne maggiormente profitto; ma Eliza è anche il doppio di Patsey, con la quale condivide la triste sorte, e il negativo della signora Shaw, che rappresenta il culmine dell'ideale parabola del destino di una schiava. Patsey vede nella signora Shaw un modello a cui aspirare, ignorando il destino di Eliza, che invece anticipa la disgrazia.
Speculari sono anche i personaggi delle padrone Ford e Epps, algide e distanti, relegate su portici e balconate come astri che gli schiavi possono solo ammirare da lontano.
La distanza fisica, lo spazio, il ritmo del respiro, dei suoni e del canto sono le vere colonne sonore del film, e giocano, anche qui, sui contrasti: il respiro affannato del Solomon arrostito dal sole contrasta con la placida calma della rigogliosa vegetazione della Louisiana, e con le scene di vita domestica che sembrano svolgersi in un universo parallelo.
Solomon sembra sempre estraneo a questi ritmi, che siano quello dell'acqua smossa dal battello o quello dei campi.
Vi si abbandona nel momento in cui perde completamente la speranza, capendo e facendo capire allo spettatore quanto davvero queste struggenti canzoni fossero l'ancora di salvezza a cui gli schiavi si aggrapparono per non affondare.
La voce, così come in Hunger la fame, sono le uniche armi per contrastare la barbarie del mondo.
Il corpo è uno scudo, un guscio, un violino: inciso dall'orrore non suonerà più dolci melodie, ma dolenti canti di denuncia che, come il libro di Northup, hanno portato fino alle nostre orecchie la tragedia della schiavitù.
Tragedia che, però, il film non relega solo nel passato: in più punti della pellicola, così come nell'Acceptance Speech agli Oscar, McQueen ci ha teso ha sottolineare quanto il lavoro schiavistico (un lavoro svuotato dei diritti di chi lo compie) sia ancora alla base della nostra economia.
Produrre, produrre, produrre, ignorando i bisogni di chi produce: se Dodici anni schiavo parla all'America e all'Occidente, non è solo per riportare a galla il passato.

sabato 1 marzo 2014

La Grande Bellezza che forse ho trovato, forse no

La mia terrazza preferita di Roma. E ben prima di Sorrentino e Jep Gambardella

Confesso spudoratamente due cose: la prima è che al termine della prima visione questo film non mi è affatto piaciuto, e la seconda è che al termine della quarta visione continuo a ritenere che un sacco di roba potesse essere tranquillamente tagliata, come l'imbarazzante "episodio" finale sulla Santa.
Tuttavia è stata proprio una dichiarazione di Sorrentino a costringermi a tornarci e tornarci per scavare nei fotogrammi a caccia di un senso, l'utilizzo dell'incipit di Viaggio al termine della notte di Céline a dirmi che non poteva essere il ciarpame che sembrava.
In un'intervista, infatti, il regista si è interrogato sul perché un film tutto sommato così innocuo avesse innescato nella critica italiana reazioni molto più viscerali di un film politico come Il Divo.
Che nervi scoperti è riuscito, più o meno inconsciamente, a toccare?
E così mi sono messa a guardarlo e riguardarlo, liberandomi ogni volta di uno strato di pregiudizio, perché se c'è una cosa che amo del cinema è la possibilità che ti dà di vedere il mondo con gli occhi di un altro.
Se paragone con La Dolce Vita deve essere, che sia proprio in questo aspetto e in nient'altro: Jep Gambardella è il filtro di Instagram attraverso cui vediamo deformata Roma e la sua alta borghesia, più o meno come il disincanto di Mastroianni era quello scelto da Fellini a suo tempo.
Manca, tuttavia, a Sorrentino, quella vena misticista, o forse, più semplicemente, l'apporto prezioso del Pasolini di turno.
Non gli manca, però, una certa volontà di critica sociale, e in questo non solo si discosta dal modello felliniano, ma addirittura lo ribalta.
Il soggetto e l'oggetto del film è Jep Gambardella, incarnazione della classe intellettuale italiana, che sperpera il proprio talento e si volta dall'altra parte per non dover affrontare i reali problemi.

-Ma tu conosci tutti? Certo che deve essere una bella soddisfazione!
-Conoscere tutti è una chiara assicurazione infelicità.
-Perché, la gente ti ha deluso?
-Forse sono stato io a essere deludente.

È a Jep che tutti si rivolgono per un consiglio, e a tutti Jep cerca di portare il suo misero, inefficace aiuto. È Jep che sente il peso del suo fallimento, è Jep che perde tutto quello che c'è da perdere: il cammino della Grande Bellezza è l'autocoscienza di un uomo a cui non rimane che tornare a scrivere, un uomo che ha perso parte del suo mondo ma non il talento.

Comincia sempre così, con la Morte.
Ma prima c'è stata la Vita.

La morte con cui si scontra Jep è reale e metaforica, è cambiare pelle, rimescolare le carte.
La Vita a cui sembra rinunciare non è mai stata veramente vita, così come per Céline non è vera vita viaggiare per il solo gusto di  immaginare se stessi su un altro fondale.
Il chiacchiericcio e il rumore sono gli strati di terra che seppelliscono il passato, ed è questa metafora archeologica che rende Roma l'unica città in cui era possibile ambientare un film simile.
Città dove, per usare le parole dello stesso Sorrentino, il Sacro e il Profano si mescolano in maniera naturale, dove lo scorrere dell'acqua (fontane, il fiume Tevere) è il filo rosso che collega tutte le storie, dove una quinta architettonica si fa altare per la messa laica che celebra la bellezza di una città sbilanciata.

Crazy, but beautiful

E speriamo che domani sera Sorrentino possa tornare a dirlo sul palco più prestigioso di sempre, perché anche se con questo film farò sempre un po' a botte, sono convinta che pochi, più di lui, in Italia meritino di vedere quella statuetta in bacheca.

giovedì 20 febbraio 2014

Dodici anni schiavo: i Sommersi e i Salvati nella Louisiana del 1850

Queen of the field

Perché non aspettare?
Questo mi ha chiesto mia madre stamattina: l'uscita in dvd, il passaggio su Sky.
Perché voler andare per forza in sala, quando sono mesi che ho salvata in memoria la mia bella copia sottotitolata?
Mi sono risposta che voglio fare un esperimento, che vedere il film in sé non mi basta, che stavolta la visione non avrebbe senso se non fosse accompagnata dallo studio attento delle espressioni facciali di chi (pochi, ci scommetto) mi si siederanno accanto.
Perché il confine che ci separa dai proprietari di piantagioni di Bayou Boeuf è molto più sottile di quanto immaginiamo, e riguarda più che altro l'idea che sia giusto che a fare i lavori di serie Z siano sempre quelli che parlano una lingua diversa dalla nostra.
A un certo punto della sua autobiografia Solomon Northup dice una cosa che mi ha impressionato molto, una cosa che avevo ritrovato identica ne I Sommersi e i Salvati di Primo Levi: lo schiavismo non è un fatto di crudeltà, quella semmai ne è una delle componenti principali, ma un fatto di cultura.
Cresci un uomo con la convinzione che lo schiavo valga più o meno quanto un mulo da soma, così come con l'idea che un ebreo vale quanto un ratto, e il bambino "che è padre dell'uomo" finirà per trattare lo schiavo come un mulo da soma, e l'ebreo come un ratto.
Il sadismo è una scorciatoia intellettuale.
Il primo motivo per cui le memorie di Solomon Northup meritano di essere lette sta nella lucidità con cui, una volta tornato uomo libero, ha saputo guardare indietro per ricostruire e analizzare la sua esperienza.
Il secondo motivo sta nell'importanza storica che quella ricostruzione ha, perché ci sono molti dettagli -anche e soprattutto pratici- delle condizioni di vita di uno schiavo che non solo non sono mai stati rappresentati altrove, ma che risultano difficili da immaginare.
E non sono necessariamente dettagli orrorifici, e qui sta il salto di qualità che, a occhio, McQueen sembra avere fatto: obiettivo è sempre stato obiettivo, ma anziché puntare tutto sulla violenza (che pure c'è) ha preferito lasciarsi guidare dalla pacatezza di Solomon, lasciando fuori la rabbia, e perfino parte di quella compassione che tanto era stata determinante in Hunger e Shame.
Compensando con quel surplus di introspezione che il punto di vista di uno scrivente dell'epoca, troppo emotivamente coinvolto, non è riuscito a dare (soprattutto nel condannare l'opportunismo del "buon padrone" Ford).
Il terzo motivo è Patsey, anzi le tristi storie di Eliza e Patsey.
Il quarto motivo è, infine, la possibilità di fare un confronto con i nostri tempi, aggiungere una prospettiva a quelle con cui di solito si osserva il razzismo più o meno implicito di chi ci circonda.
Per questo il film necessita di una visione in sala, perché il confronto in questo caso è importante.
La cultura schiavistica è ancora profondamente radicata nella nostra società, anche se ha assunto altre forme.
Come quelle ben descritto da Jean-Baptiste Malet in En Amazonie.
Ma questa è un'altra storia, e andrà raccontata un'altra volta.

mercoledì 5 febbraio 2014

Lettera postuma

Rimane il fatto che, in ogni modo, capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite... Beh, siete fortunati.

Se ti avessi permesso di restare ancora qui ti avrei parlato a lungo, di Pastorale Americana. Non che per ora possa dirtene chissà cosa, ma mi sarebbe piaciuto poterti mettere a parte di ogni nuova scoperta. Ma forse era destino che io arrivassi a questo libro dopo averti messa alla porta, altrimenti chissà come mi sarebbero scivolate addosso, queste parole, solo un po' d'umido che il tempo avrebbe fatto evaporare dalla pelle come il sole. Roth mi sta facendo bene a tanti livelli, a partire dal piacere che prova il cervello a confrontarsi con un testo così "difficile", così insidioso e lento eppure cristallino, duro, quel tipo di piacere che molti lettori (soprattutto molti lettori giovani) stanno lentamente abbandonando: il piacere di mettere da parte se stessi e lasciar fare completamente all'autore, sforzarsi di seguirlo, far arrampicare la mente sulle parole e fargliele penetrare e poi ancora fare in modo che esse penetrino in noi, mettano radici, ci cambino impercettibilmente. È così che agisce la cultura, strato dopo strato, libro dopo libro, scalata dopo scalata, è solo così che possiamo sfuggire all'inevitabile ripiegarsi dell'anima su se stessa e i propri problemi.
Il modo di tenere aperto il cervello ma non così tanto da farlo scivolare fuori dal cranio, come diceva quel tale.
Roth mi fa bene per questo, e mi fa bene perché mi ricorda che scrivere è innanzitutto far vivere un personaggio dentro se stessi e sulla pagina, e non solo e non tanto inseguire uno schema. Leggere e scrivere sono piacere e fatica, non solo piacere e non solo intrattenimento.
La soddisfazione è in quello che ti lasciano alla fine, l'impercettibile mutamento, la minuscola crepa, lo spigolo smussato.
Se ti avessi permesso di restare ancora qui forse ne avremmo parlato, anche se sempre mi rimane la sensazione che la tua traiettoria fosse destinata dall'inizio ad incontrare la mia solo per un breve tratto.
Non si lascia qualcuno solo per odio.
Ma ancora non ho tutte le parole necessarie per spiegartelo.

domenica 5 gennaio 2014

Consigli Cinematografici: Frances Ha

Allen. Ma anche un po' Truffaut.

Diventare adulti significa scendere a compromessi coi propri sogni, ma ci sono modi e modi di scendere a compromessi.
Lo sa bene Noah Baumbach che confeziona un autentico gioiello, ancora inedito in Italia (ma facilmente reperibile attraverso i canali-che-voi-sapete), che pesca da Allen e Truffaut pur mantenendo una sua identità ben precisa. Ed è proprio questo il suo più grande pregio.
Frances Ha(lladay) ha 27 anni e vive a New York con la sua migliore amica Sophie. Sono legatissime e coltivano entrambe grandi sogni: Frances è apprendista in una compagnia di ballo che ama e dove spera di diventare fissa, Sophie ha iniziato una promettente carriera nell'editoria.
Il loro percorso di vita non segue nessuno degli schemi tipici hollywoodiani: non c'è il duro lavoro che porta senza indugi alla meta né la tragedia che infrange il Sogno e costringe le eroine a reinventarsi.
C'è la vita, la realtà con le sue variabili, un talento non commisurato alla passione, scelte di vita poco felici ma perseguite con ostinazione, cadute, stupidaggini, vicoli ciechi e fondi toccati, falsa felicità di facciata, ma il tutto viene descritto con grande leggerezza, anzi, levità, con uno humour delicato e sensibile, e soprattutto con un occhio che non giudica, ma è empatico e favorisce ancora di più l'identificazione da parte dello spettatore.
Soprattutto: c'è l'arte del compromesso che non è sconfitta ma alternativa, anzi, la migliore delle alternative possibili, quella che se imboccata a testa bassa come la stessa di Frances nel finale del film, fa sentire perfettamente inseriti nel proprio mondo, consapevoli di sé e dei propri mezzi.
Frances Ha è un film che mostra due percorsi che in qualunque altra pellicola sarebbero stati in opposizione, ma che qui diventano complementari acquisendo ancora più credibilità: non ci sono vincitori e vinti, premi o punizioni, ci sono persone che crescono. Il cammino di Frances appare particolarmente luminoso perché lei è quella che ha saputo guardarsi dentro più a fondo, imparando a capire cosa mantenere intatto di se stessa e quali angoli, invece, smussare.
Frances Ha è un film apparentemente piccolo ma importante, perfetto per descrivere questa nostra epoca ma senza pretese di predica, quasi una controparte cinematografica e adulta del disco Pure Heroine di Lorde.
Se a livello politico le vie per uscire dalla crisi sembrano ancora lontane l'arte sta già scrivendo le prime regole per definire un nuovo sistema di valori: smetterla di inseguire sogni e modelli impossibili e lottare per preservare se stessi e la propria unicità.