giovedì 25 aprile 2013

Consigli cinematografici: Hunger (Steve McQueen, 2008)

Più che Scorsese e De Niro, io direi Fellini e Mastroianni.

A un certo punto della prima visione è scattato uno strano meccanismo di difesa: c'era la mano del Fassbender/Sands, ormai scheletrica, dalla quale un medico stava prelevando del sangue con una siringa.
Non era una delle scene più terribili, né di quelle con un qualche valore simbolico, ma il contrasto tra quella mano così scheletrica e l'immagine mentale che avevo alzato a difesa, quella del Fassbender/attore perfettamente in salute, me ne ha richiamata alla mente subito un'altra, che si è rivelata preziosissima per capire la chiave visiva del film: la mano del Gesù della Pietà di Michelangelo.
Una volta occhiai nella biblioteca di Palazzo Venezia un volume che raccoglieva una serie di scatti in alta definizione dei dettagli della Pietà Vaticana e la foto che mi aveva colpito di più era quella della mano del Cristo, con le vene ancora in rilievo perché morto da poco, e di una morte temporanea, necessaria per lavare i peccati del genere umano.
Pietà è una parola che torna spesso in questo film, attraverso la voce fuori campo di Margareth Tatcher, che sprezzante minimizza la portata della decisione dell'Hunger Strike, lo sciopero della fame che, nel 1981, costerà la vita all'attivista dell'IRA Bobby Sands e ad altri suoi nove compagni.
Sands di cui McQueen fa un ritratto potente e delicato, realistico eppure in grado di far brillare con la purezza del diamante la sua determinazione, ritratto con le fattezze di un Cristo caravaggesco prestate da uno strepitoso Michael Fassbender, qui nell'interpretazione che ha fatto definitivamente decollare la sua carriera.
Fassbender/Sands è un Cristo moderno, capace di scacciare i mercanti dal tempio, di monopolizzare l'attenzione dei detenuti durante la messa, di far crollare come un castello di carta le argomentazioni di Padre Donovan, a cui comunica la decisione di ricorrere alla forma di protesta più estrema in una scena da Guinnes dei primati (letteralmente): diciotto minuti di camera fissa su un tavolo alle cui estremità ci sono due giocatori di tennis, che discutono del valore ultimo del sacrificio in un crescendo che, ripreso così senza interruzioni, riesce a rendere perfettamente la foga del flusso di coscienza di entrambi.
Uno spartiacque idealistico, e una pausa mentale tra i due grandi blocchi che costituiscono il film: il salto nel vuoto finale, la lenta agonia di Bobby Sands, la lotta quotidiana di un uomo determinato a morire, ma pur sempre uomo, che man mano che il corpo deperisce fa sempre più fatica a compiere anche i gesti più elementari come infilare la giacca del pigiama, ma che nonostante questo, e i dubbi, va avanti senza ripensamenti, fisicamente sempre più prigioniero, mentalmente sempre più libero, fino al volo finale, in cui la mente, dostoevskijanamente, vola libera in cielo mentre il corpo, o quel poco che ne resta, viene rinchiuso nell'ennesima gabbia, la bara, e solo allora gli viene concesso di "uscire a riveder le stelle".
Vale per Hunger quel che si è detto nel post precedente per Shame: il cinema di Steve McQueen è un cinema che chiede a chi vi partecipa di farsi carico del fardello del protagonista, in questo caso di far morire con lui qualche certezza, e far nascere dei dubbi, dei dilemmi etici.
Ma è soprattutto un film che ha chiesto al suo protagonista di essere Bobby Sands, di affamarsi come lui, di isolarsi e liberarsi mentalmente, di deperirsi fisicamente al punto da nutrirsi solo di una sardina e qualche lampone, per settimane, in un percorso molto più intenso che il "semplice" studio bibliografico.
Un lavoro di squadra, intenso e difficilissimo, che ha cementificato i rapporti umani tra i membri del cast: Fassbender e Liam Cunningham (padre Donovan) sono tutt'ora ottimi amici, la relazione umana e professionale con Steve McQueen è stata definita "quasi telepatica" ed è considerata una delle più interessanti nell'attuale panorama cinematografico.
Il ritratto che Steve McQueen traccia della "vita" nel carcere di Long Kesh, ribatezzato The Maze (il labirinto) riesce a mantenersi perfettamente in equilibrio tra denuncia, empatia e rappresentazione quasi documentaristica.
Questa lunga discesa all'inferno, infatti, per lo spettatore comincia con una lunga sequenza in cui veniamo condotti, letteralmente, nella prigione prima da una guardia e poi da un detenuto.
Seguiamo il loro quotidiano, osserviamo come l'orrore li plasmi, in un percorso davvero dantesco, che Steve McQueen iconizza nell'inquadratura dei cerchi perfettamente concentrici che un detenuto disegna sul muro con gli escrementi.



La pietà che Steve McQueen rivela e riserva anche alle guardie è un altro dei tratti che mi ha colpito molto del film: non è ipocrisia, o ricerca a tutti i costi del politicamente corretto, è proprio una convinzione intima, preludio a quella che in Shame riserverà a Brandon, cifra di una sensibilità enorme che solo un "Official War Artist" che ha girato film in Iraq e altre zone di guerra impara, applicandola con franchezza agli orrori compiuti dal proprio stesso paese.
Sempre come in Shame è magistrale l'uso dei suoni, del respiro di Fassbender/Sands che si fa sempre più lento, fino a spegnersi del tutto.
E sempre come in Shame il tocco di classe sono le atmosfere che richiamano capolavori dell'arte, come la già citata Pietà Vaticana, o Il Compianto del Cristo Morto di Andrea Mantegna.
Un film consigliatissimo, da vedere e rivedere.

 

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