domenica 13 luglio 2014

La Villa di Poppea a Oplontis e ciò che non va nella questione beni culturali (secondo me)

Comincio apparecchiando la tavola e mettendo sul piatto tre pezzi utili per far da base al discorso: il primo è la lunga intervista a Roberto Saviano pubblicata su Il Post
Leggetevela tutta, perché è interessante, e perché ci tengo a precisare sin da subito che questo post non nasce come critica a Saviano in sé, ma a un atteggiamento che, purtroppo, non è proprio di Saviano e non è proprio manco solo dell'Italia.
La dichiarazione, per dovere di cronaca, è questa:

A volte mi chiedono: perché Pompei non la vendete? Usano proprio quest’espressione, per dire di affittarla. Tutti vorrebbero presentare un film o il nuovo iPhone nell’anfiteatro di Pompei. Darebbero milioni all’anno solo per un giorno, per presentare quella cosa. Una parte di me dice: che cos’è che vuoi vendere, scusa? Ma ce n’è un’altra che dice: farebbero una cosa bellissima. Peraltro ottenendo risorse, assicurando tutto: mentre adesso se una pietra cade, cade e basta. Sento già le solite voci: “così commercializzi Pompei!”. Ma quella è una zona già “commercializzata”: molto è in mano ai clan, che fanno tutto. Ristoranti, parcheggi, subappalti, tutto, da sempre. Il clan Cesarano ha Pompei. C’è una parte di Stato che lì resiste, ma tanto le hanno tolto tutte le risorse».

Il secondo pezzo, quasi complementare al primo, a cui si deve il titolo di questo post, è la notizia della concessione d'uso della Villa di Poppea a Oplontis  per un matrimonio.
Il terzo pezzo, completamente slegato dagli altri due, ma che sta proprio alla base del ragionamento che voglio provare illustrarvi è la notizia della scelta, da parte della HBO, dell'Alcazar di Siviglia come location per le riprese della quinta stagione di Game of Thrones.
Passiamo al ragionamento.
Io ho grande rispetto, stima e ammirazione per Roberto Saviano, e il punto, come già scritto sopra, non è criticarlo o ricordargli poco carinamente di tornare a parlare di ciò che conosce, e cioè la criminalità organizzata, lasciando da parte ciò che non conosce, e cioè le questioni relative alla manutenzione e allo "sfruttamento" del patrimonio artistico.
Perché l'affermazione di Roberto Saviano fa il paio, tanto per buttare là un altro pezzo a tradimento, con la proposta del sindaco di Roma Marino di usare i musei civici per ospitare concerti e sfilate.
Dichiarazioni che ignorano volutamente la natura dell'oggetto del discorso, svuotandolo di significato fino a ridurlo a mero contenitore.
Roma ha musei civici che sono autentici gioielli architettonici, come Palazzo Braschi e il Museo Barracco, scrigni di collezioni che, se ben valorizzate, potrebbero attrarre visitatori senza bisogno di inutili orpelli.
Perché è questo ciò che mi colpisce di queste notizie, di questi ragionamenti, la totale e voluta ignoranza circa la natura di ciò di cui si parla.
Saviano ha mai letto la guida archeologica di Pompei, quella scritta dai coniugi De Voos e da La Rocca?
Più in generale: chi ha mai sentito parlare o, meglio ancora, visitato le ville di Oplontis o Boscoreale?
Marino ha mai messo piede nei musei civici di cui dovrebbe occuparsi?
Chi blatera tanto, su Facebook o altrove, di musei, di differenze con la Francia, l'Inghilterra e gli Stati Uniti i nostri musei, anche solo quelli piccoli, anche solo quello del proprio comune di residenza, la storia dei musei italiani, delle collezioni che contengono, che è peculiare e molto diversa da altre realtà l'hanno mai studiata?
Perché l'impressione che ho io, ed è un'impressione che si sta rafforzando molto negli ultimi tempi, è che chi parla di musei o patrimonio artistico parli di un'entità astratta, di una principessa in pericolo da salvare, o di una mucca da mungere, o di un ostacolo da abbattere in nome del progresso (anche se quest'ultimo aspetto è un vecchio retaggio).
Chi parla di patrimonio artistico lo riduce a mero fondale, souvenir emotivo da affittare al miglior offerente.
Questo avviene per diverse ragioni, chiaro: l'ignoranza diffusa, l'impossibilità dei laureati in discipline archeologiche o storiche artistiche di trasformare la propria conoscenza in mestiere, una certa ostilità dell'ambiente accademico nei confronti della divulgazione.
Ecco, ad esempio voi non avete idea di quanto avrei voglia di parlarvi della Villa di Poppea a Oplonti, che visitai con l'università assieme a Pompei e Ercolano: un viaggio memorabile.
Mi colpisce ancora oggi il ricordo della sala da banchetto affrescata con le sue false prospettive, quel principio base della pittura romana che vede nella decorazione un mezzo per rendere una stanza chiusa aperta e più luminosa di quanto non sia realmente: colonnati con pavoni, piatti di fichi e dolci dall'aspetto modernissimo, scudi.

Un esempio
Ve ne parlerei fino a farvene innamorare perché, secondo me, quello che manca al nostro patrimonio artistico è soprattutto l'amore non tanto dei singoli, quanto della collettività tutta.
E qui veniamo al punto: pretendere di valorizzare i nostri siti svendendoli manco fossero sale banchetto significa, innanzitutto, essere convinti che non abbiano un valore proprio, e che per ottenerlo abbiano bisogno di quantificarne uno economico.
Niente di più falso: un sito che ha secoli, se non millenni, sa reggersi perfettamente in piedi sulle sue gambe, dal punto di vista dell'appeal. Il problema è, semmai, comunicativo: quello che manca all'Italia è chi sappia raccontare il patrimonio, chi sappia farne innamorare il grande pubblico.
Come ho già detto altrove in questo periodo sto studiando per il concorso di abilitazione a guida turistica e nelle discussioni in rete ho letto commenti a dir poco aberranti di persone iscritte che, non avendo mai aperto un libro d'arte in vita loro, si lamentano per l'ampiezza del programma e lo scarso tempo che hanno per recuperare le lacune.
Che è più o meno come iscriversi all'esame di abilitazione alla professione di medico senza essere laureati in medicina, e lamentarsi di dover recuperare in pochi mesi sei anni di esami e tirocini.
La cosa triste è che non è nemmeno colpa loro, ma della Provincia che permette l'iscrizione a chi ha un diploma superiore di qualsiasi tipo, senza restringere il campo a chi, il patrimonio artistico, magari lo ha studiato così a fondo da arrivare a conseguire un dottorato.
È in questo modo che si svaluta una professione e, appunto, si riduce a mera macchina da soldi quella che è l'essenza della nostra cultura, e non in senso metaforico ma reale, sono le fondamenta sul quale si regge il pavimento su cui poggiamo i piedi.
Ma, e qui arriviamo alla conclusione, questo purtroppo non è solo un problema italiano.
L'Alcazar di Siviglia e Game of Thrones, dicevamo: che senso ha?
Non per le riprese in sé, sia chiaro, ma per il presunto indotto turistico che esse dovrebbero procurare: ne ha davvero bisogno, la Spagna? Possibile che per valorizzare le sue bellezze e la sua storia abbia bisogno di attirare gente che si farà selfie con la maglietta di casa Martell, fregandosene di ciò che ha realmente attorno?
Ha senso legare l'immagine di un luogo così bello a un telefilm che tra qualche anno ci saremmo dimenticati, vista l'alta frequenza con cui vengono sfornate serie nuove ogni anno?
Mi ricorda un po' le prese in giro (sacrosante) ai turisti che andavano a vedere Castel Sant'Angelo per via di Angeli e Demoni.
È davvero solo così che si crea nuovo indotto? Soprattutto: è davvero questo il tipo di indotto turistico che si vuole?
Non lo dico con disprezzo, io amo Game of Thrones e mi sono fatta più che volentieri una foto sul di cui trono, ma la cornice era quello di una fiera del fumetto.
Diciamo che se mi trovassi a Belfast, luogo del set originale, la mia priorità non sarebbe andare a visitare quello, quanto piuttosto i luoghi simbolo della sua storia.
La vera storia di una vera città tormentata e schiacciata da una dolorosa guerra civile, peraltro tutt'altro che conclusa.
E lo stesso farei in Spagna, o in Croazia, o in qualunque altro luogo.
Perché si dovrebbe viaggiare per immergersi in una cultura diversa, scoprire una storia a noi sconosciuta, non per inseguire riflessi della nostra confortante vita casalinga.
I siti di valore storico, i musei, non sono scatoloni vuoti da riempire di figuranti, e non sono nemmeno santuari che devono incutere timore: sono parte di noi, devono essere percepiti come parte di noi, devono essere raccontati come parte di noi.
Ai cittadini vecchi e nuovi, a chi vive qui da sette generazioni e a chi è arrivato ieri, ai turisti di passaggio o a chi non metterà mai piede oltre i confini provinciali.
La nostra arte, la nostra storia, sono biglietti da visita e carte di identità che presentiamo al mondo.
Affidereste mai un documento del genere a un perfetto sconosciuto?
Io no.
Non dovrebbero farlo nemmeno i governi.

venerdì 4 luglio 2014

Consigli di lettura: Il cardellino, di Donna Tartt

Scommettete che a fine lettura vorrete il poster in camera?
Comincerò questo post con una digressione.
Avete mai sentito parlare di Edward C. Harris?
No?
Non preoccupatevi: a meno che non siate laureati in archeologia è perfettamente normale.
Perché Edward C. Harris è, appunto, un archeologo, per la precisione l'archeologo che ha formulato le regole dell'attuale metodologia di scavo. Nello specifico l'aneddoto più interessante che lo riguarda è quello legato alla nascita di un particolare schema, il "Matrix di Harris" che è uno degli strumenti di studio più importante per chi lavora sul campo. Harris si formò nel cantiere della Lower Brook Street di Winchester, dove vennero asportati con chirurgica precisione qualcosa come diecimila strati di terreno.
Ora, a meno che voi non siate tra i convinti sostenitori della tesi per cui l'archeologo è una figura a metà tra il contrabbandiere e il detective sempre a caccia di tesori dovreste sapere (e se non lo sapete ve lo dico io) che in realtà questo lavoro è più vicino ai rilievi della polizia scientifica dopo un delitto, il che equivale a dire, in altre parole, che il fine ultimo di uno scavo è ricostruire la storia di una precisa area geografica basandosi su indizi concreti, materiali e non.
Capirete che un'indagine da diecimila e rotti strati di terra è un affare un ciccinello complicato, ed ecco che Harris, per far fronte alle difficoltà, elabora l'idea per uno schema che metta, appunto, in relazione e ordine tra di loro gli strati scavati.
Perché vi ho raccontato tutto questo, quando la foto in alto e la sinossi che potete facilmente reperire ovunque dicono che il romanzo parla di tutt'altro?
La risposta è che il protagonista di questo bellissimo romanzo (premio Pulitzer meritatissimo, tra l'altro), Theodore Decker, mi ha ricordato molto, moltissimo Harris: la sua vita è stata un enorme casino privo di logica e l'unico modo che ha per orientarvisi (e far orientare, di conseguenza, noi lettori) è sedersi a un tavolino e cominciare a raccontarla.
In prima persona, sempre e comunque dal suo punto di vista (espediente narrativo, questo, particolarmente utile per rendere colpo di scena qualche passaggio di trama che con un narratore onnisciente non sarebbe stato tale), da un metaforico inizio a una metaforica fine che non sono nascita e morte in senso anagrafico, ma perdita fisica (enorme, incolmabile) e rinascita interiore, fine e inizio del rapporto con il dipinto che da il titolo al libro e che potete ammirare in apertura di post.
Theo ha una storia incredibilmente simile al quadro a cui si lega in maniera ossessiva, e solo mettendo ordine nelle vicende che li hanno tenuti legati per anni potrà trovare una sorta di salvezza.
Si è parlato, nelle recensioni, di un romanzo ibrido che è per metà romanzo di formazione e metà thriller: credo ragionevolmente che non sia né l'uno né l'altro.
Il cardellino è una catarsi, lenta e lunga come è giusto che una catarsi sia, per costruire la quale Donna Tartt si affida a Dickens, Salinger e Dostoevskij (quello de L'Idiota, e Dio solo sa quanto abbia apprezzato il modo in cui l'ha citato) ma come mattoni e calcestruzzo, non certo come fondamenta.
Il romanzo, infatti, parla di altro: Theo è Il cardellino ma a questo quadro rimane incatenato da una serie di coincidenze che però, in qualche modo, e senza alcun disegno particolare a monte, lo spingono a intraprendere un mestiere preciso, quello di antiquario che, come capirà solo alla fine, è per lui più di un lavoro, ma lo scopo stesso della sua esistenza.
Ci vorranno un mare di peripezie, persone perse e persone ritrovate, amori perduti e amori creduti tali, per arrivare a farglielo ammettere, e a farlo capire a noi lettori.
Il contatto ravvicinato con quel dipinto ha forgiato Theo, e la storia di Theo finisce per conferire valore aggiunto a quella del dipinto: Donna Tartt riesce ad andare oltre le considerazioni più ovvie sull'importanza che l'arte ha non solo per noi inteso come genere umano, ma proprio per noi in quanto singoli individui, mettendo sul piatto un punto di vista poco esplorato.
A questo proposito io trovo ammirevole anche solo la maestria nell'essere riuscita a creare un libro non partendo dall'ennesima opera perduta, ma da un dipinto realmente esistente e perfettamente al suo posto: la sospensione dell'incredulità non subisce mai scosse, anzi.
In definitiva, se siete persone di poche pazienza non so quanto consigliarvi questa lettura.
Ma se siete persone curiose, sempre disposte a farsi domande su se stessi e su come nascano le passioni che ci definiscono (cioè quelle che decidono della nostra vita e carriera), allora questo è il testo che fa per voi.