giovedì 20 febbraio 2014

Dodici anni schiavo: i Sommersi e i Salvati nella Louisiana del 1850

Queen of the field

Perché non aspettare?
Questo mi ha chiesto mia madre stamattina: l'uscita in dvd, il passaggio su Sky.
Perché voler andare per forza in sala, quando sono mesi che ho salvata in memoria la mia bella copia sottotitolata?
Mi sono risposta che voglio fare un esperimento, che vedere il film in sé non mi basta, che stavolta la visione non avrebbe senso se non fosse accompagnata dallo studio attento delle espressioni facciali di chi (pochi, ci scommetto) mi si siederanno accanto.
Perché il confine che ci separa dai proprietari di piantagioni di Bayou Boeuf è molto più sottile di quanto immaginiamo, e riguarda più che altro l'idea che sia giusto che a fare i lavori di serie Z siano sempre quelli che parlano una lingua diversa dalla nostra.
A un certo punto della sua autobiografia Solomon Northup dice una cosa che mi ha impressionato molto, una cosa che avevo ritrovato identica ne I Sommersi e i Salvati di Primo Levi: lo schiavismo non è un fatto di crudeltà, quella semmai ne è una delle componenti principali, ma un fatto di cultura.
Cresci un uomo con la convinzione che lo schiavo valga più o meno quanto un mulo da soma, così come con l'idea che un ebreo vale quanto un ratto, e il bambino "che è padre dell'uomo" finirà per trattare lo schiavo come un mulo da soma, e l'ebreo come un ratto.
Il sadismo è una scorciatoia intellettuale.
Il primo motivo per cui le memorie di Solomon Northup meritano di essere lette sta nella lucidità con cui, una volta tornato uomo libero, ha saputo guardare indietro per ricostruire e analizzare la sua esperienza.
Il secondo motivo sta nell'importanza storica che quella ricostruzione ha, perché ci sono molti dettagli -anche e soprattutto pratici- delle condizioni di vita di uno schiavo che non solo non sono mai stati rappresentati altrove, ma che risultano difficili da immaginare.
E non sono necessariamente dettagli orrorifici, e qui sta il salto di qualità che, a occhio, McQueen sembra avere fatto: obiettivo è sempre stato obiettivo, ma anziché puntare tutto sulla violenza (che pure c'è) ha preferito lasciarsi guidare dalla pacatezza di Solomon, lasciando fuori la rabbia, e perfino parte di quella compassione che tanto era stata determinante in Hunger e Shame.
Compensando con quel surplus di introspezione che il punto di vista di uno scrivente dell'epoca, troppo emotivamente coinvolto, non è riuscito a dare (soprattutto nel condannare l'opportunismo del "buon padrone" Ford).
Il terzo motivo è Patsey, anzi le tristi storie di Eliza e Patsey.
Il quarto motivo è, infine, la possibilità di fare un confronto con i nostri tempi, aggiungere una prospettiva a quelle con cui di solito si osserva il razzismo più o meno implicito di chi ci circonda.
Per questo il film necessita di una visione in sala, perché il confronto in questo caso è importante.
La cultura schiavistica è ancora profondamente radicata nella nostra società, anche se ha assunto altre forme.
Come quelle ben descritto da Jean-Baptiste Malet in En Amazonie.
Ma questa è un'altra storia, e andrà raccontata un'altra volta.

mercoledì 5 febbraio 2014

Lettera postuma

Rimane il fatto che, in ogni modo, capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite... Beh, siete fortunati.

Se ti avessi permesso di restare ancora qui ti avrei parlato a lungo, di Pastorale Americana. Non che per ora possa dirtene chissà cosa, ma mi sarebbe piaciuto poterti mettere a parte di ogni nuova scoperta. Ma forse era destino che io arrivassi a questo libro dopo averti messa alla porta, altrimenti chissà come mi sarebbero scivolate addosso, queste parole, solo un po' d'umido che il tempo avrebbe fatto evaporare dalla pelle come il sole. Roth mi sta facendo bene a tanti livelli, a partire dal piacere che prova il cervello a confrontarsi con un testo così "difficile", così insidioso e lento eppure cristallino, duro, quel tipo di piacere che molti lettori (soprattutto molti lettori giovani) stanno lentamente abbandonando: il piacere di mettere da parte se stessi e lasciar fare completamente all'autore, sforzarsi di seguirlo, far arrampicare la mente sulle parole e fargliele penetrare e poi ancora fare in modo che esse penetrino in noi, mettano radici, ci cambino impercettibilmente. È così che agisce la cultura, strato dopo strato, libro dopo libro, scalata dopo scalata, è solo così che possiamo sfuggire all'inevitabile ripiegarsi dell'anima su se stessa e i propri problemi.
Il modo di tenere aperto il cervello ma non così tanto da farlo scivolare fuori dal cranio, come diceva quel tale.
Roth mi fa bene per questo, e mi fa bene perché mi ricorda che scrivere è innanzitutto far vivere un personaggio dentro se stessi e sulla pagina, e non solo e non tanto inseguire uno schema. Leggere e scrivere sono piacere e fatica, non solo piacere e non solo intrattenimento.
La soddisfazione è in quello che ti lasciano alla fine, l'impercettibile mutamento, la minuscola crepa, lo spigolo smussato.
Se ti avessi permesso di restare ancora qui forse ne avremmo parlato, anche se sempre mi rimane la sensazione che la tua traiettoria fosse destinata dall'inizio ad incontrare la mia solo per un breve tratto.
Non si lascia qualcuno solo per odio.
Ma ancora non ho tutte le parole necessarie per spiegartelo.