venerdì 28 agosto 2015

Che la terra ti sia lieve, Amelia.

È morta oggi all'età di 104 anni Amelia Boynton Robinson, una delle protagoniste della marcia di Selma e braccio destro di Martin Luther King. Come aspirante giornalista ebbi modo di ascoltarla di persona rievocare quegli eventi. L'occasione fu la presentazione alla stampa della traduzione della sua autobiografia, "Un ponte sul Giordano". Scusatemi se per celebrarla non trovo modo migliore che condividere quel pezzo.

“Un ponte sul Giordano”: in un libro Amelia Boynton Robinson racconta il suo lungo cammino a fianco di Martin Luther King che ha cambiato l’America

“Il fanatismo è una malattia emotiva che va trattata con gentilezza e compassione”. In tempi difficili come i nostri (si pensi solo ai recentissimi fatti di Parigi) parole come queste suonano insieme come un balsamo e una carica. Soprattutto se a scriverle non è una donna qualunque, ma una delle più straordinarie figure femminili della storia del ‘900. Una donna piccola e apparentemente fragile che all’età di 94 anni ritiene ancora di avere qualcosa da fare per migliorare il mondo. Una donna che si preoccupa ancora che a qualcuno possa essere negato l’accesso alla sala dove si sta tenendo una conferenza stampa in suo onore, perché in passato ha visto troppo spesso negare l’accesso persino ad un posto a sedere sull’autobus a gente che aveva il suo stesso colore di pelle. Una donna che ha avuto il privilegio di cambiare l’America insieme a uomini straordinari del calibro di Martin Luther King. Amelia Boynton Robinson è un’icona, un simbolo ma soprattutto una donna che ha ancora molto da trasmettere ai giovani, suoi interlocutori privilegiati. Ha iniziato a battersi per i diritti civili fin da giovanissima, a fianco della madre attivista politica e primo segretario della Negro Chamber of Commerce di Philadelphia e che ha sempre visto come il suo modello (“Tieni gli occhi sull’obiettivo, non sulle difficoltà”, “Quando sai per certo che hai ragione vai avanti senza guardare in faccia nessuno”, queste alcune delle perle di saggezza che la Boynton Robinson considera la sua eredità più importante), per poi proseguire a fianco del Reverendo King e dell’Associazione per i Diritti Civili di cui casa sua era il quartier generale. E’ la protagonista indiscussa di una delle date-simbolo della storia degli Stati Uniti, il 7 marzo 1965, quella che verrà poi ribattezzata la “Bloody Sunday”, la domenica di sangue, quella della marcia “pacifica” (almeno nelle intenzioni dei neri) da Selma a Montgomery che costò la vita a moltissimi attivisti, brutalmente picchiati dalla polizia. Tra di essi anche una giovane donna che si salvò per puro miracolo fingendosi morta. La foto di quel corpo martoriato fece il giro del mondo e Amelia Boynton Robinson divenne un simbolo. Mentre osservava la polizia a cavallo del governatore Wallace che si lanciava sui manifestanti fermi sul ponte Edmund Pettus ripensò alle parole di una delle giovani che aveva conosciuto qualche tempo prima, una ragazzina di neanche vent’anni che uscita dal carcere replicava così alla madre che la rimproverava: “Mi sto battendo affinché tu possa avere diritto al voto.” Sotto il ponte, il fiume scorreva lento, lento come il Giordano di un celebre spiritual: “Il fiume Giordano è freddo e gelido, ma raffredda il corpo e non l’anima”. Versi da cui ha tratto ispirazione per la sua autobiografia “Un ponte sul Giordano- la mia lunga marcia al fianco di Martin Luther King”, edita in Italia dalla Palomar. Un ponte solido che portò il Presidente Lyndon Johnson a firmare, dopo quel tragico giorno il “Voting Right Act” che riconosceva ai neri il diritto al voto. Da lì la Boynton Robinson pensò di aver trovato un po’ di pace e di potersi dedicare alla sua nuova vita a fianco del suo secondo marito. Ma, come ha raccontato in conferenza stampa, Dio aveva deciso diversamente. Un tragico incidente in barca la lascia vedova per la seconda volta facendole intuire che forse la sua missione non era ancora terminata. Perché, come ha detto a proposito di Martin Luther King, “essere uomini di Dio significa spendere i propri talenti per gli altri e non per se stessi”. E così ha ripreso a lottare per un mondo più giusto. Lotta che la porta oggi a gridare forte contro il Presidente Bush (che considera non un presidente eletto, ma “selezionato”) e la globalizzazione che riduce in povertà le nazioni più deboli, facendola schierare a fianco di Lyndon LaRouche e del suo movimento che ritiene erede dello spirito e dei valori trasmessi dal Reverendo King. Una donna straordinaria, fiera ed orgogliosa di esserlo (“una donna non vale né più né meno di un uomo e la cosa più bella è quando entrambi si impegnano per la stessa causa”, ha dichiarato) convinta che in ogni bambino che nasce ci sia un potenziale genio che sta a noi riuscire a far sviluppare. Una donna che ha lanciato un segnale di speranza in direzione della tolleranza e del rispetto degli altri popoli, indicando in leggi più solide di quelle attuali il rimedio per garantirla. Il suo libro è una serie di battaglie e di sconfitte, di incontri con illustre personalità e figure “anonime” che hanno sacrificato la vita per la causa in cui credevano, ma è anche un racconto di grandi vittorie. Soprattutto, è la storia della non-violenza e del coraggio, indicate come le uniche vere armi per una protesta efficace che porti a risultati concreti. Un racconto incredibile che non può assolutamente lasciare indifferenti, con le sue storie di crudeltà ed efferatezza (per non dire tortura) ai danni di attivisti giovanissimi, “colpevoli” di aver preteso un mondo migliore per se stessi e per i propri cari. Un libro che può insegnare tanto, molto più di qualche semplice data, e che non dovrebbe assolutamente mancare nella biblioteca di ogni scuola.


Daniela Gervasi    

domenica 23 agosto 2015

Perdere una battaglia, ma non la guerra: un parere sulla seconda stagione di True detective

Io a volte gli appassionati di serie tv non li capisco: viene lanciato in pompa magna un poliziesco ad alto budget, cast, regia e fotografia cinematografiche, la presunzione di proporre un mix di classici del genere condendoli con filosofia rubata altrove.
Il pubblico impazzisce.
Poi la serie si gioca la carta dell'azzardo, ogni stagione si propone uno scenario nuovo, dalla lentezza di un'indagine a due si passa a un complesso intreccio di destini e personaggi, si sfronda un po' di retorica, si rimane concentrati sull'essenziale, si lavora di fino.
E il pubblico, stavolta, storce il naso.
Lo dico senza mezzi termini: io la prima stagione di True detective ho iniziato a prenderla sul serio solo arrivati alla scena del re-incontro tra Rust e Marty. Prima di allora tanta perplessità, al netto di alcune cose buone (McConny in stato di grazia soprattutto).
Il caso era debole e confuso, i continui salti temporali snervavano un po', certe trovate come le visioni di Rust erano davvero fastidiose: ci fossero stati attori meno bravi non sarei arrivata in fondo.
Poi, per carità, gli episodi finali hanno ribaltato il giudizio, quelli che mi sembravano difetti si sono rivelate scelte vincenti, la chiusura è stata a lieto fine ma non retorica.
Ho amato Rust Cohle per il fatto che ci è stato presentato come un figo quando è sempre stato solamente un miserabile, e ho amato Marty perché è stato un miserabile capace di assumersi le responsabilità dei suoi sbagli.
In questa seconda stagione lo schema mi è sembrato molto simile: Pizzolatto si è preso il suo tempo per disporre le pedine sulla scacchiera e creare l'intreccio, utilizzando la gabbia creata per la prima stagione ma riempiendola con contenuti più concreti.
E ambiziosi.
Non dovrebbe essere sfuggito, infatti, allo spettatore che ha fatto il liceo classico il riferimento ad Antigone e, in generale, i temi e i dilemmi propri della tragedia classica, declinati in un contesto stavolta molto più realistico (Vinci non si chiama proprio così ma esiste per davvero e sì, è un posto dove il potere si tramanda di padre in figlio): la seconda stagione di True detective è una storia di perdenti.
Semyon, Velcoro, Woodrugh, Bezzerides sono quattro personaggi che si trovano coinvolti in una guerra in cui non hanno mai davvero avuto la possibilità di vincere.
Ciascuno di loro, quando se ne rende conto, deve fare i conti con se stesso e gettarsi il passato alle spalle.
Solo chi avrà il coraggio di andare in fondo, senza mentire o cedere, avrà la possibilità di sopravvivere.
La trama di questa seconda stagione è riassumibile così, il caso, che pure ha avuto uno sviluppo più intricato di quello della stagione precedente, in questo contesto ha svolto quasi più la funzione di mcguffin.
D'altronde è la sigla stessa a ribadirlo, con quel "The war is lost, the treaty signed" sussurrato dalla voce roca di Leonard Cohen in apertura.




A proposito della sigla, un altro paio di cose meritano di essere dette: la finezza del tagliare il testo della canzone prendendo le citazioni più calzanti alla puntata e, in generale, il fatto che racchiudesse in sé l'essenza della storia narrata.
Pizzolatto non è Dick Wolf, a lui interessa la verità degli uomini o la loro abilità nel nasconderla più che la giustizia, la legge e i conflitti che si accendono quando la seconda va contro la prima.
In questo senso il mito di Antigone viene ripreso nel suo aspetto essenziale, la scelta che si fa e il suo prezzo, ciò a cui si è disposti a rinunciare per fare la cosa giusta.
Il resto è quasi solo un contorno, anche se di ottima fattura.
Sinceramente spero che la HBO mantenga il punto e continui a scommettere su questa serie, il Grande Atlante delle contraddizioni d'America merita di essere completato.