lunedì 24 aprile 2017

Consigli di lettura: Colori Proibiti, di Yukio Mishima

Uno dei concetti che più mi è rimasto appiccicato tra quelli appresi negli anni del liceo classico è l'etimologia della parola perfezione: è un derivato del verbo perficere che significa, letteralmente, portare a compimento. Ne deriva che la perfezione è il compimento di qualcosa, e che l'aggettivo perfetto, accostato a un qualsiasi termine, indica che quell'oggetto non ha bisogno di ulteriori ritocchi. Sta bene così, ha toccato il punto più alto della sua parabola, del suo aspetto, della sua conformazione. Perché inizio una recensione di un testo di Mishima con una digressione sul concetto di perfezione? Perché non credo che esista un altro termine che possa descrivere meglio il percorso umano e artistico di quest'uomo fuori dal comune. 25 novembre 1970: una data che in Giappone è diventata un pezzo di storia. Yukio Mishima, assieme a quattro fidati uomini del Take no Kai, una specie di milizia da lui stesso creata, occupa il Ministero della Difesa e, dopo un discorso celebrato di fronte all'esercito e alla stampa, si toglie la vita secondo le regole del suicidio rituale. Sul significato politico di tale gesto è stato scritto di tutto di più, quasi sempre tentando di incasellarlo all'interno di schemi politici ben lontani dalla visione che aveva l'autore: il nazionalismo di Mishima, la critica all'occidentalizzazione del Giappone poco hanno a che spartire con l'etichetta di "fascista" che gli è stata appiccicata addosso da certa critica nostrana. Fa tutto parte di una precisa visione filosofica che l'autore ha costruito nell'arco di una vita intera, e che tocca la sfera politica solo parzialmente (e marginalmente). Perché ho scelto di tirare in mezzo un discorso tanto scomodo e sgradevole? Per due ragioni: la prima è che quel suicidio così eclatante è stato il punto di arrivo di tutto il percorso e umano e artistico di Mishima, e volente o nolente non si può intavolare un discorso che sia uno su questo autore senza affrontarlo; due: perché la morte in generale, e il suicidio in particolare, è solo uno dei tanti temi affrontati dall'autore in Colori Proibiti. Partiamo, infatti, da una considerazione essenziale: Colori Proibiti è un libro che contiene in sé svariati libri: il tema della "maschera", tanto caro alla cultura giapponese; il tema della condizione dei maschi omosessuali nella Tokyo del dopoguerra; il dualismo vecchiaia/giovinezza, ma anche quello cultura occidentale/orientale; la misoginia, la maternità, l'amore che si realizza solo attraverso la sua stessa negazione; una certa visione della politica, della società e della sua ipocrisia, etc... C'è una forte componente autobiografica, certo, vale per tutte le opere di questo scrittore ma qui, tutto sommato, è meno "evidente" rispetto al più famoso Confessioni di una maschera. Come nella mostra sulla sua vita che venne organizzata poco prima del suicidio, in cui il percorso era diviso in quattro "fiumi" che solo percorrendo assieme restituivano un'immagine completa dell'uomo e dell'artista, così l'unione di tutte le sotto-trame e le tematiche restituisce il quadro completo della mente di un uomo incredibile e incredibilmente colto. Già un riassunto di massima della trama la dice lunga sulla complessità di questo libro: Shunsuke è un anziano scrittore che segue la giovane amante Yasuko in una località balneare. Sospetta, infatti, che lei sia l'ennesima donna che lo abbia tradito. Arrivato lì scopre che Yasuko è in effetti innamorata di un altro uomo, un ragazzo bellissimo e apparentemente incapace di provare amore, Yuichi. Facendo leva sull'ingenuità del giovane e offrendosi di aiutarlo economicamente Shunsuke, un uomo che è sempre stato brutto e sgradevole, fa di Yuichi il suo strumento di vendetta nei confronti delle donne che lo hanno fatto soffrire. Qui parte un romanzo quasi parallelo che, seguendo lo schema classico del romanzo di formazione, segue Yuichi nell'esplorazione della propria omosessualità: dalla scoperta delle coppie clandestine nei parchi pubblici alla frequentazione di locali e party sempre più esclusivi; dalle prime esperienze con giovani di pari età a relazioni con uomini sempre più altolocati. Si intrecciano a questi due filoni l'evoluzione di alcuni altri personaggi, perfettamente definita, tra cui spiccano i coniugi Kaburagi (lei in particolare, forse il più bel personaggio di tutto il libro) e Yasuko, la giovane ingenua che nel corso della storia diviene sempre più consapevole del suo ruolo al fianco dell'indecifrabile Yuichi e, successivamente, di madre. Ma tutti i personaggi, anche quelli più infimi, sono cesellati con cura, emergendo dalla pagina quasi come persone in carne e ossa. L'elemento che più mi ha colpita del libro, però, è il modo armonioso e perfettamente coerente con cui Mishima mescola filosofia orientale e occidentale: è la prima volta che mi capita di imbattermi in un romanziere che citi con tanta cognizione di causa Winckelmann, la filosofia e i fondamenti della storia dell'arte greca: la descrizione dell'attimo in cui gli occhi di Shunsuke si posano sulla figura di Yuichi che emerge dalle onde del mare di ritorno da una nuotata mi ha ricordato il modo accorato in cui Winckelmann descrive l'Apollo del Belvedere, che tanto mi colpì il primo anno di università. Yuichi è l'incarnazione fisica del concetto di Kouros, una tipologia piuttosto importante di statua greca arcaica che rappresentava il giovane ideale (Kore è il corrispettivo femminile): come una statua, come un'idea che deve essere sviluppata, all'inizio è vuoto, privo di pensieri ed emozioni. Sono le esperienze che lo riempiranno, le parole di Shunsuke ma anche gli incontri al Rudon (un locale che rappresenta una delle ambientazioni principali del romanzo) che lo plasmeranno, rendendolo finalmente una persona vera, con proprie ambizioni e desideri e obiettivi. Solo allora potrà liberarsi dal vincolo che lo tiene legato a Shunsuke. E però anche il vecchio scrittore, che è tutto meno che un "villain" inteso alla maniera occidentale, seguirà un proprio percorso evolutivo, plasmato da ciò che vivrà di riflesso grazie a Yuichi, in una lunga riflessione spirituale e artistica, colma di riferimenti alla letteratura giapponese, sulla bellezza e la crudeltà della giovinezza. Colori Proibiti non è una lettura facile, e sotto un certo punto di vista neanche piacevole. È un libro denso, dove ogni riga ha un peso specifico, ogni parola usata un significato preciso. Richiede pazienza, ma ripaga dello sforzo. Perché la lettura è anche questo: una sfida, e i libri montagne da scalare. Lungi da me voler attaccare una filippica sull'importanza di leggere "alta letteratura", discorso scemo che ha poco senso, dirò più banalmente che, a volte, è necessario mettersi alla prova, vedere fin dove l'intelletto è in grado di arrivare, fin dove siamo in grado di comprendere qualcosa che è più grande di noi. È grazie a questo tipo di sfide che possiamo definire meglio noi stessi, i nostri "contorni", i nostri campi di interesse e le nostre priorità. Non è questione di cultura, o di superiorità morale: è l'equivalente per la mente del fare sport. Ogni tanto bisogna alzare l'asticella per vedere fin dove si riesce a saltare: Mishima può essere un bel traguardo. Non fosse altro che, per una volta, vi troverete di fronte a veri omosessuali maschi giapponesi, e non alle loro rappresentazioni stereotipate da manga.

lunedì 7 settembre 2015

Ad Bononiam

Quest'anno, per il compleanno, mi sono regalata un colloquio di lavoro a Bologna.
Per un tour operator.
Se va bene dovrei occuparmi di animazione per bambini in qualche villaggio turistico non si sa se in Italia, in Spagna, in Grecia, in Marocco o in Turchia.
Ovviamente sto morendo d'ansia per un sacco di motivi, dai più banali come lo spostamento hotel-luogo del colloquio a cose più grosse come: "Ommioddio se mi prendono dovrò procurarmi un passaporto e imparare bene l'inglese sennò è la fine" passando per il più classico: "Se va male mi ritrovo col culo per terra".
Però sono anche un sacco ma un sacco felice.
Perché a Bologna dovevo andare da tanto, perché se va bene inizierò a viaggiare e lo farò pagata, perché comunque questa prospettiva è la cosa più bella che mi sia capitata da ANNI a questa parte, perché vuol dire che in fondo valgo davvero qualcosa.
La responsabile delle risorse umane mi sta mandando un sacco di mail di conferma e ogni volta mi dice che sono davvero interessati alla mia candidatura, che magari è una frase di rito che dicono a tutti ma mi fa sentire bene lo stesso.
Dopo la delusione dell'esame da guida turistica (di cui comunque ancora non sono uscite le date degli orali perché non si sa se il Ministero cambierà per la ventordicesima volta le regole) ero totalmente perduta, non sapevo cosa fare e come uscire dal guado in cui mi ero impantanata.
Poi, finalmente, il laboratorio di archeologia per la scuola elementare va in porto e si rivela un successo, io devo lavorare per organizzarne un altro in spiaggia che alla fine non si farà ma che uso lo stesso come portfolio da allegare al curriculum.
L'idea, infatti, è quella di riuscire a procurarmi un'esperienza nel settore turistico, o sulle navi da crociera o per un qualche tour operator, in attesa di ottenere entrambe le abilitazioni (voglio diventare sia guida che accompagnatrice turistica) e mettermi in proprio.
Mi risponde una società di navigazione, ma vogliono che frequenti un corso a pagamento fuori (in cui dovrei pagarmi tutto da me), un tour operator con cui però non riesco ad accordarmi per un lavoro in Sardegna e la società con cui farò il colloquio sabato.
Non mi sembra vero che stia accadendo.
Che stia accadendo a me, intendo.
Ho passato talmente tanti anni a sottovalutarmi, a dar retta a chi denigrava il mio percorso da dimenticare chi sono e quello che ho fatto.
Non devo permettere più che una cosa del genere accada.
L'ho giurato a me stessa in una delle tanti notti insonni che hanno caratterizzato questa estate di transizione.
Per questo venerdì mattina partirò a testa alta, determinata e sorridente, mi godrò il viaggio e il giro serale per il centro di Bologna, e il giorno dopo affronterò il colloquio con tutta la grinta di cui dispongo.
Comunque vada, io riparto da qui.
Un passo alla volta, perché la strada da fare è ancora lunga.



venerdì 28 agosto 2015

Che la terra ti sia lieve, Amelia.

È morta oggi all'età di 104 anni Amelia Boynton Robinson, una delle protagoniste della marcia di Selma e braccio destro di Martin Luther King. Come aspirante giornalista ebbi modo di ascoltarla di persona rievocare quegli eventi. L'occasione fu la presentazione alla stampa della traduzione della sua autobiografia, "Un ponte sul Giordano". Scusatemi se per celebrarla non trovo modo migliore che condividere quel pezzo.

“Un ponte sul Giordano”: in un libro Amelia Boynton Robinson racconta il suo lungo cammino a fianco di Martin Luther King che ha cambiato l’America

“Il fanatismo è una malattia emotiva che va trattata con gentilezza e compassione”. In tempi difficili come i nostri (si pensi solo ai recentissimi fatti di Parigi) parole come queste suonano insieme come un balsamo e una carica. Soprattutto se a scriverle non è una donna qualunque, ma una delle più straordinarie figure femminili della storia del ‘900. Una donna piccola e apparentemente fragile che all’età di 94 anni ritiene ancora di avere qualcosa da fare per migliorare il mondo. Una donna che si preoccupa ancora che a qualcuno possa essere negato l’accesso alla sala dove si sta tenendo una conferenza stampa in suo onore, perché in passato ha visto troppo spesso negare l’accesso persino ad un posto a sedere sull’autobus a gente che aveva il suo stesso colore di pelle. Una donna che ha avuto il privilegio di cambiare l’America insieme a uomini straordinari del calibro di Martin Luther King. Amelia Boynton Robinson è un’icona, un simbolo ma soprattutto una donna che ha ancora molto da trasmettere ai giovani, suoi interlocutori privilegiati. Ha iniziato a battersi per i diritti civili fin da giovanissima, a fianco della madre attivista politica e primo segretario della Negro Chamber of Commerce di Philadelphia e che ha sempre visto come il suo modello (“Tieni gli occhi sull’obiettivo, non sulle difficoltà”, “Quando sai per certo che hai ragione vai avanti senza guardare in faccia nessuno”, queste alcune delle perle di saggezza che la Boynton Robinson considera la sua eredità più importante), per poi proseguire a fianco del Reverendo King e dell’Associazione per i Diritti Civili di cui casa sua era il quartier generale. E’ la protagonista indiscussa di una delle date-simbolo della storia degli Stati Uniti, il 7 marzo 1965, quella che verrà poi ribattezzata la “Bloody Sunday”, la domenica di sangue, quella della marcia “pacifica” (almeno nelle intenzioni dei neri) da Selma a Montgomery che costò la vita a moltissimi attivisti, brutalmente picchiati dalla polizia. Tra di essi anche una giovane donna che si salvò per puro miracolo fingendosi morta. La foto di quel corpo martoriato fece il giro del mondo e Amelia Boynton Robinson divenne un simbolo. Mentre osservava la polizia a cavallo del governatore Wallace che si lanciava sui manifestanti fermi sul ponte Edmund Pettus ripensò alle parole di una delle giovani che aveva conosciuto qualche tempo prima, una ragazzina di neanche vent’anni che uscita dal carcere replicava così alla madre che la rimproverava: “Mi sto battendo affinché tu possa avere diritto al voto.” Sotto il ponte, il fiume scorreva lento, lento come il Giordano di un celebre spiritual: “Il fiume Giordano è freddo e gelido, ma raffredda il corpo e non l’anima”. Versi da cui ha tratto ispirazione per la sua autobiografia “Un ponte sul Giordano- la mia lunga marcia al fianco di Martin Luther King”, edita in Italia dalla Palomar. Un ponte solido che portò il Presidente Lyndon Johnson a firmare, dopo quel tragico giorno il “Voting Right Act” che riconosceva ai neri il diritto al voto. Da lì la Boynton Robinson pensò di aver trovato un po’ di pace e di potersi dedicare alla sua nuova vita a fianco del suo secondo marito. Ma, come ha raccontato in conferenza stampa, Dio aveva deciso diversamente. Un tragico incidente in barca la lascia vedova per la seconda volta facendole intuire che forse la sua missione non era ancora terminata. Perché, come ha detto a proposito di Martin Luther King, “essere uomini di Dio significa spendere i propri talenti per gli altri e non per se stessi”. E così ha ripreso a lottare per un mondo più giusto. Lotta che la porta oggi a gridare forte contro il Presidente Bush (che considera non un presidente eletto, ma “selezionato”) e la globalizzazione che riduce in povertà le nazioni più deboli, facendola schierare a fianco di Lyndon LaRouche e del suo movimento che ritiene erede dello spirito e dei valori trasmessi dal Reverendo King. Una donna straordinaria, fiera ed orgogliosa di esserlo (“una donna non vale né più né meno di un uomo e la cosa più bella è quando entrambi si impegnano per la stessa causa”, ha dichiarato) convinta che in ogni bambino che nasce ci sia un potenziale genio che sta a noi riuscire a far sviluppare. Una donna che ha lanciato un segnale di speranza in direzione della tolleranza e del rispetto degli altri popoli, indicando in leggi più solide di quelle attuali il rimedio per garantirla. Il suo libro è una serie di battaglie e di sconfitte, di incontri con illustre personalità e figure “anonime” che hanno sacrificato la vita per la causa in cui credevano, ma è anche un racconto di grandi vittorie. Soprattutto, è la storia della non-violenza e del coraggio, indicate come le uniche vere armi per una protesta efficace che porti a risultati concreti. Un racconto incredibile che non può assolutamente lasciare indifferenti, con le sue storie di crudeltà ed efferatezza (per non dire tortura) ai danni di attivisti giovanissimi, “colpevoli” di aver preteso un mondo migliore per se stessi e per i propri cari. Un libro che può insegnare tanto, molto più di qualche semplice data, e che non dovrebbe assolutamente mancare nella biblioteca di ogni scuola.


Daniela Gervasi    

domenica 23 agosto 2015

Perdere una battaglia, ma non la guerra: un parere sulla seconda stagione di True detective

Io a volte gli appassionati di serie tv non li capisco: viene lanciato in pompa magna un poliziesco ad alto budget, cast, regia e fotografia cinematografiche, la presunzione di proporre un mix di classici del genere condendoli con filosofia rubata altrove.
Il pubblico impazzisce.
Poi la serie si gioca la carta dell'azzardo, ogni stagione si propone uno scenario nuovo, dalla lentezza di un'indagine a due si passa a un complesso intreccio di destini e personaggi, si sfronda un po' di retorica, si rimane concentrati sull'essenziale, si lavora di fino.
E il pubblico, stavolta, storce il naso.
Lo dico senza mezzi termini: io la prima stagione di True detective ho iniziato a prenderla sul serio solo arrivati alla scena del re-incontro tra Rust e Marty. Prima di allora tanta perplessità, al netto di alcune cose buone (McConny in stato di grazia soprattutto).
Il caso era debole e confuso, i continui salti temporali snervavano un po', certe trovate come le visioni di Rust erano davvero fastidiose: ci fossero stati attori meno bravi non sarei arrivata in fondo.
Poi, per carità, gli episodi finali hanno ribaltato il giudizio, quelli che mi sembravano difetti si sono rivelate scelte vincenti, la chiusura è stata a lieto fine ma non retorica.
Ho amato Rust Cohle per il fatto che ci è stato presentato come un figo quando è sempre stato solamente un miserabile, e ho amato Marty perché è stato un miserabile capace di assumersi le responsabilità dei suoi sbagli.
In questa seconda stagione lo schema mi è sembrato molto simile: Pizzolatto si è preso il suo tempo per disporre le pedine sulla scacchiera e creare l'intreccio, utilizzando la gabbia creata per la prima stagione ma riempiendola con contenuti più concreti.
E ambiziosi.
Non dovrebbe essere sfuggito, infatti, allo spettatore che ha fatto il liceo classico il riferimento ad Antigone e, in generale, i temi e i dilemmi propri della tragedia classica, declinati in un contesto stavolta molto più realistico (Vinci non si chiama proprio così ma esiste per davvero e sì, è un posto dove il potere si tramanda di padre in figlio): la seconda stagione di True detective è una storia di perdenti.
Semyon, Velcoro, Woodrugh, Bezzerides sono quattro personaggi che si trovano coinvolti in una guerra in cui non hanno mai davvero avuto la possibilità di vincere.
Ciascuno di loro, quando se ne rende conto, deve fare i conti con se stesso e gettarsi il passato alle spalle.
Solo chi avrà il coraggio di andare in fondo, senza mentire o cedere, avrà la possibilità di sopravvivere.
La trama di questa seconda stagione è riassumibile così, il caso, che pure ha avuto uno sviluppo più intricato di quello della stagione precedente, in questo contesto ha svolto quasi più la funzione di mcguffin.
D'altronde è la sigla stessa a ribadirlo, con quel "The war is lost, the treaty signed" sussurrato dalla voce roca di Leonard Cohen in apertura.




A proposito della sigla, un altro paio di cose meritano di essere dette: la finezza del tagliare il testo della canzone prendendo le citazioni più calzanti alla puntata e, in generale, il fatto che racchiudesse in sé l'essenza della storia narrata.
Pizzolatto non è Dick Wolf, a lui interessa la verità degli uomini o la loro abilità nel nasconderla più che la giustizia, la legge e i conflitti che si accendono quando la seconda va contro la prima.
In questo senso il mito di Antigone viene ripreso nel suo aspetto essenziale, la scelta che si fa e il suo prezzo, ciò a cui si è disposti a rinunciare per fare la cosa giusta.
Il resto è quasi solo un contorno, anche se di ottima fattura.
Sinceramente spero che la HBO mantenga il punto e continui a scommettere su questa serie, il Grande Atlante delle contraddizioni d'America merita di essere completato.

giovedì 9 aprile 2015

Consigli di lettura: In these words

GuiltPleasure was founded in 2010 as a collaboration between an artist and a writer, with a desire to introduce a bold new form of art and storytelling to fans of the Yaoi/BL doujinshi, manga and novel publishing world. Since then, GuiltPleasure has grown from a US-based doujin effort into an international, multi-language publishing group of dedicated individuals with a common mission to deliver a high standard of homoerotic entertainment. Not your everyday BL, GuiltPleasure explores darker themes and unconventional plotlines, testing the boundaries of the human psyche. Never predictable, our works promise a journey into the uncharted, often feared depths of the sensual mind.

Se devo essere sincera, tutto quello che potrei scrivere su In these words e, più in generale, sulle opere di Kichiku Neko e Toga Q (aka Jo Chen) non aggiunge poi molto a questo proclama, perché quello del collettivo Guilt Pleasure è uno dei rari casi in cui le promesse sono state ampiamente mantenute.
In these words è il miglior fumetto yaoi attualmente in circolazione, sia per qualità dei disegni, che per cura nella composizione delle tavole, senso del ritmo e della regia nella costruzuione delle scene, ma soprattutto per la storia: è un thriller vero, che a volte sembra quasi sconfinare nell'horror, con l'elemento romantico che entra in gioco tardi e quasi solo per straziare ulteriormente il lettore.
La trama potrebbe apparire quasi banale, con il profiler dall'aspetto delicato chiamato a estorcere una confessione da un killer che, al contrario, è mellifluo e scaltro, e nel contempo diviene preda di incubi sempre più angoscianti, in cui viene rapito e seviziato da un uomo senza volto.
Una Yamane qualsiasi ci avrebbe tirato fuori una ventina di numeri di sadomaso sempre più spinto, e introspezione sempre più scarsa.
Me la ricordo ancora perfettamente, la discussione sul forum YSAL sul primo numero di Viewfinder, il fiato speso per criticare la "famosa" scena del rullino.
Lo stupro è una delle più controverse fantasie erotiche femminili e, piaccia o meno, la rappresentazione che ne fece ai tempi la Yamane aveva ben poco di realistico, e molto di pornografico, a cominciare dall'ampio numero di giocattoli erotici sfoggiati da Asami, che guarda caso quasi non apre bocca per tutta la scena.
Perché ho tirato in mezzo un confronto simile?
Perché non solo, a tutt'oggi, considero Viewfinder un'occasione sprecata (crei un'ambientazione e dei personaggi alla Jon Woo e poi li mandi a puttane senza manco fare finta di costruire un intreccio? O, peggio: costruendolo per poi abbandonarlo dopo pochi numeri?), ma anche e soprattutto per via dell'uso che le Guilt fanno, a loro volta, del tema stupro: in In these words è qualcosa di reale, per nulla erotico, che ha un peso preciso e delle conseguenze devastanti per chi lo subisce: è un atto di umiliazione, e tutta la storia poggia sulla capacità della vittima di risollevarsi e affrontarlo.
Non solo: lo stupro è un evento traumatico e imprevedibile che va a spezzare tutti gli equilibri che chi lo subisce ha creato (magari faticosamente) fino a quel momento: questo aspetto raramente viene trattato, ma le Guilt riescono a farlo anche tramite una serie di prequel che, pur essendo ininfluenti ai fini della trama, approfondiscono la caratterizzazione psicologica dei due protagonisti, lasciando quindi alla storia principale il compito di concentrarsi sulla narrazione degli eventi.
Katsuya e Shinohara sono molto più di quello che sembrano, sia in termini assoluti che di coppia, e per capirlo basterebbe già guardare le sole copertine, pensate sempre in coppie speculari e contrapposte, e dal significato ben preciso:



Qui, ad esempio, la scelta dell'albero è stata fatta per la somiglianza che l'intreccio dei rami ha con la rete neurale: Katsuya è uno pischiatra, il suo compito è indagare nella mente di Shinohara, ma anche nella propria alla ricerca del perché di quegli incubi.
E qui mi taccio perché, per quanto abbia cercato di limitare gli spoiler al minimo sindacale (non vi ho detto nulla che non sia nel prologo) ogni dettaglio rivelato rischia di rovinare la sorpresa.
È un po' come rubare la ciliegina sulla torta.
Quello che posso dire di mio è che quest'opera mi ha veramente rubato il cuore, rappresentando quello che ho sempre sperato di leggere a livello di fumetti yaoi ma anche di scrivere (infatti non avete idea di quanto sia stata di ispirazione per il progetto a cui sto lavorando), e che consigliarla in ogni dove mi sembra quasi un dovere morale.
Non esistono scans, i singoli capitoli in formato ebook costano (non parliamo dei cartacei, sono volumi autoprodotti con conseguenti spese di spedizione dagli Stati Uniti), ma per quanto mi riguarda è un investimento che vale ogni singolo centesimo speso.
Posso tranquillamente rinunciare ad altre letture, pur di averlo.
E a fine mese uscirà il capitolo nuovo, decisivo, quello dove parte delle domande potrebbero cominciare ad avere finalmente risposta.
Mamma mia che scuffia che mi sono presa.
Katsuya Asano, se tu sapessi quello che stai rappresentando per me, in questo momento... ma forse lo sai, visto che campeggi in ogni dove, come avatar o cover.

domenica 25 gennaio 2015

"Graecia capta ferum victorem coepit"



Se non è stato/a il/la prof di arte, di sicuro lo abbiamo appreso grazie a Masami Kurumada e i suoi Cavalieri dello Zodiaco: Atena era una dea guerriera, vestita di tutto punto con l'armatura, l'elmo sempre calato in testa a nascondere il viso e i capelli.
La dea della strategia, che consiglia e protegge gli eroi, e non disdegna lei stessa di buttarsi nella mischia.
Una dea dal cervello sempre attivo, che si inventa l'ulivo (e l'olivocoltura), la tessitura, che suona il flauto ma si intende anche di tecniche di costruzione navale, che è fieramente vergine ma non nasconde la sua vanità, che sovrintende all'artigianato, cioè a quell'attività dove al lavoro manuale deve unirsi l'ingegno.
Atena era lo specchio e il modello di riferimento della sua città, il simbolo di una civiltà sui cui principi si basa tutt'oggi la società occidentale, e nessuno scultore più di Fidia ha saputo celebrarla.
L'ha immaginata in svariate forme, una più famosa dell'altra, ma la più bella è, forse, quella meno nota al grande pubblico: una dea della pace, con l'elmo nella mano destra al posto della Vittoria e l'Egida, la protezione che le copre il petto, spostata di lato.
Il viso ha linee morbide e un'espressione dolce, i riccioli sono ordinatamente tenuti raccolti da una fascia.
Fu realizzata per dei coloni che, da Atene, si erano stabiliti nell'isola di Lemno e da essi fu donata all'Acropoli.
Pensando alle notizie che giungono stasera da Atene mi è venuto spontaneo pensare a lei e alla grande dignità che il popolo greco ha manifestato in questi anni difficili.
Non so cosa ci attenderà nei prossimi mesi, se Alexis Tsipras saprà, come mi auguro, tener fede alle promesse che gli hanno permesso di conquistare questo storico risultato ma comunque vada spero che sia la dea Atena a guidare la sua mano, e il cammino del dialogo con Bruxelles.
Perché in questi tempi bui di rigurgiti fondamentalisti è bene guardare a ciò che è sempre stato sinonimo di giustizia e intelligenza, di pace e prosperità.
Guardare ad Atene, guardare ad Atena, guardare a una politica che riparta dal senso di fratellanza che unisce i popoli del Mediterraneo.
Perché quel "una fazza, una razza" non è soltanto la battuta di un film di Salvatores.
È ciò che siamo tutti, e stasera un po' di più.

giovedì 8 gennaio 2015

Dumpennente


È da quando ho appreso la notizia dell'attentato alla sede della rivista Charlie Hebdo che penso, e continuo a pensare, che il vero problema della nostra società non stia tanto nell'integrazione, quanto nella rimozione di certi concetti, nel loro relegarli nuovamente alla sfera del tabù. Prendete i grandi giornali americani, ad esempio: c'è chi, nel riportare la notizia, si è posto il dubbio se pubblicare o meno le vignette. È una domanda cretina, prima ancora che assurda, perché niente riuscirà a far capire meglio il vuoto che questa mattanza crea che far conoscere il lavoro di chi ne è rimasto vittima, in nome di un presunto dovere di non offendere determinate minoranze.
Io ho profondo rispetto per le minoranze (e anche maggioranze) religiose, ma sono di Roma, la città del papa re e di Pasquino, di Belli e di un dialetto costruito in gran parte storpiando il latino liturgico, so quanto ha fatto e quanto può fare per il progresso della civiltà dissacrare ciò che viene considerato intangibile.
E lo sapeva anche un signore di nome Anthony Burgess, che voi conoscerete sicuramente per essere l'autore di quell' Arancia Meccanica da cui Kubrick trasse uno dei suoi capolavori: Burgess a Roma scoprì Belli, lo immaginò amico di Keats, li vide insegnarsi l'un l'altro l'arte di ridere della disperazione.
Abba Abba è un libro piccolo, più quasi un esercizio di stile che un romanzo, in cui Burgess esprime tutta l'ammirazione per questo dialetto straordinario capace di nominare il cazzo con una parola presa dal testo dello Stabat Mater.
Dumpennente - dum pendebat.
Un batacchio che pende, moscio, tra le cosce come il corpo morto di Cristo pende dalla croce.
Mentre osservavo inorridita, come tutti, le immagini dell'attentato, una parte di me è tornata a quell'immagine, a quella capacità di smontare col riso e con la ferocia della parola il male, di denudarlo agli occhi del mondo coprendolo di ridicolo.
Charlie Hebdo è una delle poche isole felici in cui questa sana pratica non solo viene portata avanti, ma rivendicata con orgoglio.
L'unico modo che mi viene in mente per rendere loro giustizia è tornare a riappropiarsene tutti.
Qui la questione non è tanto, e solo, l'integrazione, la lotta al terrore, la rivendicazione di una presunta superiorità morale.
Qui la questione è la libertà di espressione, che si difende con la penna e con la lingua.
E allora, visto che le vignette di Charlie Hebdo potete trovarle ovunque, ma il libro di Burgess è un po' più difficile da reperire, lasciate che vi regali l'omaggio al dumpennente.
Che poi è un omaggio alla giovinezza perduta di Keats, a Belli, e alla vita che non è quella confinata nelle chiese.
Indipendentemente da quale confessione siano.

"Stasera sono molto sciocco. Certamente. Un sonetto sul pene, con la coda. Giusto, molto giusto. Chi è il suo amico?"
"Un uomo attratto da interessi contrastanti; dalla rispettabilità, perfino dalla santità, e dalla vita squallida e sofferta di questa città sacra e profana che il governo papalino ha reso, almeno in superficie, ottusa e conformista. Vede, signore, possiamo amare i nostri papi spiritualmente, ma, nella sfera secolare, esserne affatto scontenti. Come che sia. Se lei a Roma vuole il riso, troverà il riso nell'oscenità della disperazione."
"Questa", disse John, la faccia rilucente al bagliore delle candele del pianoforte, "è una bella espressione. L'oscenità della disperazione. Proprio così."
"Voglio regalarle una bella parola" disse Gulielmi "che non troverà in Dante. È per l'organo maschile, ed è dumpennente. Non è bella?" [...]
"Portando con sé un solitario dumpennente" disse John. Assaporò quella parola deliziosa. "Duuuuuum... un pene pendulo, penoso, una piccola appendice."
"Proprio così. Vede come funziona il linguaggio romanesco? Una enne e una di di seguito diventano una doppia enne. L'origine, naturalmente, è nel latino dum pendebat. Riesce a cogliere l'allusione? No? 
Stabat mater dolorosa, apud lignum lachrymosa, dum pendebat filius.
"Un'empia allusione, se posso." disse Severn senza che fosse stato richiesto il suo parere. [...]
"Via, Mister Severn, l'avevo presa per una persona di fede riformata. È il nostro Stabat Mater, non il vostro, e possiamo essere un po' blasfemi, se ci va."
"La blasfemia è blasfemia."
"Una e indivisibile" disse John allegramente. "Severn prende il suo Stabat Mater da Haydn o Mozart, o non so da quale altro autore. Ma che meraviglia: dum pendebat, mentre Lui pendeva. Dalla croce, fra le cosce. È veramente squisito, e non ha nulla di etereo. Questa è della buona ironia inguinale. Mi ha fatto un bel regalo, signor Gulielmi."