sabato 2 novembre 2013

Punti fermi

Ogni tanto stare in silenzio fa bene.
È più facile individuare le priorità e ottimizzare le forze, senza contare quel surplus di riflessione che è sempre cosa gradita.
Perché bloggare? Per chi, soprattutto?
Me lo sono chiesto spesso, in questo periodo.
Avere un posto tutto mio mi è sempre piaciuto, Splinder prima e Livejournal poi sono state delle case dove ho lasciato un pezzo di cuore.
E non che stare lì sia stato sempre facile, anzi: spammer molesti, dissapori, strascichi di rancore, e poi ancora contatti che spariscono, stalker, troll etc... il blog si nutre del contatto con gli altri, ma il cibo che mangia è, talvolta, cibo avvelenato.
Non posso non sospettare che una piccola parte della mia gastrite debba ringraziare chi, in questi anni, ha contribuito a rendere l'atto di aprire caselle di posta/messaggi/chat più un sacrificio che un gesto quotidiano.
Per questo, una volta tanto, ho voluto provare a fare qualcosa di diverso, aprire un posto che servisse a me prima ancora che al contatto con gli altri.
Ma era un posto che concepivo come vetrina, più che come una casa, e questo ha procurato un'altra frattura.
Se si scrive per se stessi non si scrive per dovere, e se si scrive per dovere lo si deve fare bene, cercando sempre l'argomento più particolare, e la forma più originale per raccontarlo.
Scrivere un articolo è offrire agli altri la parte migliore di sé, mentre il blog comporta spesso l'esatto opposto, ovvero offrire la parte più impulsiva, emotiva, la meno attenta all'estetica del linguaggio.
Se vuoi una casa non puoi gestirla come faresti con un albergo a cinque stelle, al massimo come un accogliente bed&breakfast.
Che è la soluzione che vorrei provare ad applicare: non liste infinite di film/telefilm/libri assolutamente-da-vedere/leggere, non il mettersi in mostra in cerca di consensi, ma un conservare quanto di bello un'esperienza, quale che sia, mi ha lasciato.
E di queste esperienze, in questo periodo di silenzio, ne ho fatta più di qualcuna, per fortuna.
Il giorno del mio compleanno, pur con tutte le limitazioni del caso (partenza non prima dell'ora di pranzo, emicrania, caldo tropicale che ha reso più difficoltosi gli spostamenti a piedi e coi mezzi) mi sono regalata una visita alla Keats-Shelley House di Piazza di Spagna: un luogo che volevo visitare da tanto, e che non mi ha delusa, anzi.
Non solo mi ha lasciato un sacco di suggestioni che ancora, a distanza di quasi due mesi, mi porto dietro, ma mi ha anche permesso di acquistare il cartaceo di un romanzo, Abba Abba di Burgess, che si è rivelato davvero illuminante.
Se ora come sfondo dello smartphone ho il ritaglio di una foto che ho fatto alla Barcaccia è proprio per avere sempre dietro un ricordo di quella giornata.
Lo spirito di Keats l'ho sentito accanto, non tanto e non solo quando mi sono ritrovata per ben dieci minuti completamente sola nella sua stanza, dove mi sono sentita una ladra a scattare foto e dove comunque, subito dopo, sono stata in silenzio quasi senza muovermi, ma anche durante la pausa di lettura che mi sono concessa sul Pincio, con una granita alla menta a farmi compagnia.
Perfino dentro Trinità de' Monti ho sentito la sua risata, quando credevo che il custode volesse aiutarmi ad accendere la candela e invece era venuto a dirmi di mettere uno scialle sulle spalle, e sì che il vestito che portavo era privo di scollatura...
Roma mi ha fatto bene: non sono mai stata tipo da feste e regali in grande stile per cui scappare da lei in solitudine, godermi i miei tempi e la possibilità di parlare il minimo sindacale senza rendere conto a nessuno che non fossi io delle mie stesse scelte è più di quanto potessi sperare, visto anche come è andato l'anno.
Se ne sono accorti anche i miei a cena, me ne sono accorta io nei giorni successivi.
Roma è il primo scalino per arrivare a quella libertà di movimento a cui aspiro, e a cui devo mirare senza altri ripensamenti.
Sono stanca della vita che ho fatto in questi anni, dei troppi sì detti per quieto vivere.
Non posso essere l'unica a sacrificarsi, in questa casa, la mia salute e anche il mio carattere ne stanno risentendo.
Quando sono diventata una persona così invidiosa, cinica e disillusa?
Quando ho smesso di credere in me e non vedere più prospettive?
Quando mi sono persa di vista?
Io non lo so di preciso, ma se è vero che ammettere di avere un problema è il primo passo per risolverlo, io questo primo passo l'ho fatto.
E non voglio più fermarmi.

sabato 14 settembre 2013

(S)Consigli cinematografici: To Rome With Love, di Woody Allen

Difendere l'indifendibile

Come si fa a scrivere la recensione di un film indifendibile?
Ok, ci sarebbe il trucchetto dell'insulto facile, del tiro al piccione, della lamentela e dell'indignazione da tastiera, ma quello lo sanno fare tutti e se siete capitati su questo blog è perché, magari, volete leggere qualcosa di diverso.
Sì, ma cosa?
Innanzitutto partiamo da un assunto: il problema principale di To Rome with Love non sta nei luoghi comuni, che quelli c'erano pure in Mindnight in Paris, anche se meglio camuffati.
Raccontare la realtà complessa delle grandi città europee non è mai stato l'obiettivo di Allen, l'occhio del regista newyorkese è sempre rivolto più all'uomo che al contesto.
Parigi è una cartolina migliore di Roma solo perché l'autore la conosce meglio.
No, il problema vero, grosso di questo film è la stanchezza: la sindrome di Ozymandias (e vai a capire perché in Italia la attribuiamo a Melpomene, perdendo la citazione di Shelley che pure nella capitale visse), che Allen appiccica ai suoi personaggi, è in realtà solo e soltanto sua.
La consapevolezza che tutto è effimero atterrisce il regista, affievolendo la sua vitalità fino a tramutarla in strisciante stanchezza.
From Love to Love è un film svogliato, che si trascina fino alla fine per inedia, con pochi guizzi.
Lascia in bocca un che di amaro, che si fa più persistente man mano che aumenta il tempo dalla visione, e forse è proprio questo amaro a non farmelo buttare via del tutto.
Perché è qualcosa che il film ti trasmette indipendentemente dalla sua sciatteria, la condizione endemica di tutti i personaggi..
Tutti rimpiangono qualcosa, e non sanno veramente godere dell'attimo, forse come Allen non ha saputo godere di Roma.
Il regista e le sue creature sono gli Ozymandias di cui noi spettatori contempliamo la miseria:

 I met a traveller from an antique land
Who said: Two vast and trunkless legs of stone
Stand in the desert. Near them on the sand,
Half sunk, a shatter'd visage lies, whose frown
And wrinkled lip and sneer of cold command
Tell that its sculptor well those passions read
Which yet survive, stamp'd on these lifeless things,
The hand that mock'd them and the heart that fed.
And on the pedestal these words appear:
"My name is Ozymandias, king of kings:
Look on my works, ye Mighty, and despair!"
Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away.

Rovine

Nota: resta da chiedersi, comunque, perché Parigi ispiri una trama basata sull'idea che di una città ciascuno può e deve prendersi il pezzetto che vuole mentre Roma, riferimento a Shelley a parte, ispiri solo malinconia e rovina. 


sabato 7 settembre 2013

Scrittura al Cinema: Profumo o di quando seguire pedissequamente un testo si rivela la scelta sbagliata

Avviso ai naviganti: "Scrittura al Cinema" passa da blog tematico a rubrica. Il perché è presto detto: non mi piace avere troppe casette virtuali e non mi piace che passi così tanto tempo tra un aggiornamento e l'altro. Sono una persona che ha interessi diversi e trovo soffocante dovermi concentrare su uno solo, trascurando gli altri. L'ho sempre pensato ma, ora, è giunto il tempo di farlo davvero: ho bisogno di tenere un blog "adulto", un posto che non sia solo un cestino da intasare con la spazzatura dei problemi personali ma una scatola dove conservare ricordi e riflessioni. Per fortuna i mesi appena trascorsi mi hanno permesso di accumulare materiale su cui scrivere in certo numero, cominciamo dal punto dove ci siamo interrotti. E, dunque, note sparse sul perché, secondo me, la versione cinematografica di Profumo di Suskind non ha funzionato.


Un tipo di cui si tornerà a parlare spesso su queste pagine


"I film raccontano storie tratte da vecchi romanzi, le immagini servono solo a illustrare testi. Bisogna spezzare il legame con la letteratura e rivisitare invece la grande pittura , fondendola col movimento cinematografico: è questo il vero 3D"


Il cervello, si sa, funziona per associazioni e, nonostante queste parole, pronunciate da Peter Greenway durante la lectio magistralis tenuta lo scorso aprile a Roma, non calzino proprio a pennello col discorso che sto per fare sono le prime che mi sono venute in mente qualche settimana fa quando, per puro caso, mi sono trovata a vedere per la seconda volta Profumo - Storia di un assassino di Tom Tykwer, adattamento dell'omonimo romanzo di Patrick Suskind.
Un libro difficilissimo da approcciare, tanto che prima di Tykwer avevano tentato di portarlo al cinema, ma senza successo, registi del calibro di Stanley Kubrick e Martin Scorsese.
Da dove nascono tutte queste difficoltà?
Partiamo da un fatto: l'autore, Patrick Suskind, è uno storico.
Lo si capisce benissimo senza nemmeno scomodare Wikipedia: ogni appiglio è buono per dipingere un ritratto vividissimo del contesto storico in cui le vicende dell'immaginario profumiere Jean-Batiste Grenouille sono ambientate, per ripercorrere le tappe dell'evoluzione dell'arte profumiera, per conoscerne i luoghi-simbolo, immaginarne le atmosfere.
La trama in sé (tutto sommato debole, per chi dovesse commettere l'errore di approcciarvisi da appassionato di crime) è soltanto un pretesto per raccontare un mondo davvero poco conosciuto, un fondale che finisce per anteporsi perfino ai personaggi che lo popolano.
Jean-Baptiste, la zecca umana che quasi non parla e che nemmeno quasi pensa, è il tramite che ci permette di riflettere su un qualcosa che diamo per scontato e invece non è scontato per niente: il tentativo, da parte dell'uomo, di addomesticare il mondo degli odori.
E qui veniamo al secondo problema, che poi è anche quello più grosso: il modo in cui Suskind costruisce l'universo olfattivo di Grenouille, fatto di immagini e costruzioni lessicali che funzionano solo in un testo scritto. 
È questo particolare aspetto del romanzo che, secondo me, ha fatto dire a Kubrick che era impossibile da adattare: per farlo bisognerebbe essere in grado, e qui scatta il collegamento con la citazione di Greenway, di creare una struttura visiva completamente nuova, interamente cinematografica, una soluzione visiva che vada in parallelo con quella descrittiva adottata da Suskind.
Sarebbe stato necessario, in pratica, fare una raffinata opera di traduzione che Tykwer non è stato, ahimè, in grado di fare, troppo legato al testo scritto, in maniera fin troppo pedissequa.
Il film racconta la storia di Grenouille ma non la fa vivere, e riesce a emozionare solo per via della bravura di Ben Whishaw, qui al primo ruolo cinematografico di una certa visibilità.
Altra interpretazione di una certa intensità è quella di Alan Rickman, che proprio con Whishaw dà vita ad una scena particolarmente emozionante, e guarda caso unico dettaglio assente nel romanzo.
Intendiamoci: visivamente il film è molto bello, la fotografia funziona molto bene ma certe soluzioni sono fin troppo ingenue, finendo per smorzare proprio ciò che nel romanzo ha forza.
Giocare con un senso come l'olfatto non è assolutamente semplice, l'abilità di Suskind è consistita nell'aver accettato e vinto questa sfida, dando non forma, bensì vita all'immateriale, all'aleatorio e all'impalpabile, e metaforicamente a ciò che è invisibile alla ragione.
Come Grenouille, che vive attraverso il naso ma senza avere odore.
Probabilmente, come dice Kubrick, non esiste un modo per trasformare questo in magia di celluloide e il tentativo di Tykwer, in tal senso, è ammirevole, ma il cinema non è fatto solo di buone intenzioni e se un regista decide di puntare forte, dovrebbe avere il coraggio di giocare la partita fino in fondo, rischiando il tutto e per tutto.
Altrimenti di innovativa rimane solo la buona volontà.


giovedì 23 maggio 2013

Racconto: Pet Society


Note: questo racconto è stato pubblicato nel quarto numero della Rivista Letteraria Fralerighe Crime


Pet Society




“Lei ci va su Facebook, Maresciallo?”
L’uomo che stava parlando lo chiamavano Pozzo perché era nero nero come la morte, compresa la voce.
Tuttavia aveva la fedina penale meno sporca di quanto la gente credesse, tanto che, per esempio, non aveva mai ammazzato nessuno.
Ma in fondo al pozzo è buio, non si riesce a vedere e la gente non ha idea di cosa ci sia, laggiù.
Tira a indovinare, spesso sbagliando.
“Io no, ma so come funziona”, fu la risposta di Bruno Savelli.
Aveva imparato in fretta che, per ottenere quello che serve, bisogna dire il minimo indispensabile e lasciar fare all’interlocutore.
Pozzo voleva collaborare, ma voleva farlo a maniera sua.
Cosa gli costava assecondarlo?
“Scommetto che è per via di suo figlio”, proseguì imperterrito l'altro. “Anche per me è così. Ci sta appiccicato tutto il giorno, scambiandosi cazzate coi compagni di classe. A stare a sentire i ragazzini, però, si imparano un sacco di cose.”
Pozzo fumava toscanelli, proprio come lui.
Se ne accesero uno ciascuno, in silenzio, rintanati ognuno nel proprio spazio vitale, dove quel tratto d’unione era visto come una banale coincidenza.
Un paio di boccate e il Commissario tornò a parlare.
“A me l’idea di imparare dai ragazzini non piace, ma se lei dice che è possibile, sono curioso di ascoltare qualcuna di queste perle di saggezza.”
Pozzo sorrise, il Maresciallo pure, ma le coincidenze continuavano a restare solo coincidenze.
Lo spazio vitale, per gente come loro, ha il contorno preciso del ruolo assunto nella società, e i ruoli sono fatti come le divise, stoffa rigida e linee dritte.
Pozzo, invece, stava recitando la parte del criminale spavaldo.
“C’è una cosa che mi ha colpito, in particolare. Un gioco. Il gioco degli animaletti.”
Pet Society. È così che si chiama, se non ricordo male.”
“Sì, sì, proprio quello, grazie.”
“Che c’è di interessante in quel gioco?”
“Ognuno ha un animale, che è amico solo degli animali delle persone che sono amiche sue. All’inizio del gioco viene assegnata una casa piccola e con poche cose. La casa fa parte di un paese con tanti negozi, tutti con roba bella e costosa, e dalle case degli amici.”
"Come le villette che stanno costruendo qua intorno.”
Pozzo annuì come fanno i maestri di scuola durante le interrogazioni.
“Proprio questo è il punto. Un paese fatto di singole case e di pochi negozi, tutti di proprietà dei gestori del gioco. Sa come si guadagnano da vivere, gli animaletti? Facendo visite e favori agli amici. Non un vero lavoro, qui ti pagano se vai a trovare gli altri animaletti, se li pulisci quando i proprietari se ne scordano. E più amici hai e più soldi fai, rendendo più bella non la città stessa, ma l’interno di casa tua.”
"Che sta cercando di dirmi?
Il maresciallo Savelli aveva capito dove stavano andando a parare, e quel posto non gli piaceva affatto.
“Che lei può pure arrestarmi, Maresciallo, e arrestare quelli per cui lavoro, e i capi dei loro capi, ma non servirà a niente.”
Savelli sospirò annoiato, Pozzo non era affatto il primo mafioso che arrestava a parlare come il personaggio di un brutto film americano.
“Il sistema è stato creato, ci importa solo della nostra casa e di guadagnare facendo favori agli amici. Questa città è Pet Society, la controlla chi l’ha costruita, a darle informazioni io non ci guadagnerei niente, e tutto sommato nemmeno lei.”
Per questa parte Savelli dovette riconoscere a Pozzo una certa originalità.
Anche l’interpretazione era stata da Oscar, coi gomiti appoggiati alla scrivania e il toscanello penzolante all’angolo della bocca.
“Torni a casa da suo figlio, ci parli un po’ di più e si limiti a fare quel poco che le garantisce di intascare lo stipendio mensile.”
Qui il maresciallo decise che poteva bastare.
“La smetta.”, gli intimò.
Pozzo mantenne la posizione, imperturbabile.
“Lei ha un amico, lo Stato, che la fa guadagnare poco. È zozzo come la morte, ma si fa passare per uno splendore per non cacciare fuori le monete d’oro.”
Sembrava un venditore, più che un criminale.
Uno di quei bottegai vecchio stampo, che fanno finta di tenerti da parte il prodotto migliore.
Pensando questo al Maresciallo Savelli venne voglia di baccalà.
Sua madre lo andava sempre a comprare da un norcino secco e lungo, che gli faceva una paura tremenda.
Senza nemmeno rispondere a quella provocazione diede l’ordine di portare via Pozzo.
Rimasto solo si affacciò alla finestra, tormentando il mozzicone di toscanello coi denti.
Pensò al quartiere dove abitava, una lunga via isolata puntellata da bifamiliari giallo senape.
Il giorno in cui l’aveva comprata sapeva benissimo a chi stava regalando i suoi soldi, ma ignorò volutamente la questione per via del prezzo più basso che era riuscito a strappare all’agenzia immobiliare.
Non sapeva se la storia del gioco fosse vera, ma la sensazione che il suo lavoro gli procurava, negli ultimi tempi, era quella di essere un animaletto dai movimenti limitati.
Schiacciò il mozzicone in un posacenere a forma di Colosseo, regalo del figlio andato a Roma in gita scolastica l’anno prima.
La giornata era lunga, e forse con un caffè sarebbe apparsa meno dura.
Bruno Savelli non era uomo da dubbi universali: animaletto o no sapeva che l'unica cosa che poteva fare era continuare il proprio lavoro.
Di proposte come quella di Pozzo ne avrebbe ricevute altre: bastava ignorarle.
O almeno così sperava.

domenica 5 maggio 2013

Consigli cinematografici: Diaz - Don't clean up this blood (D. Vicari, 2012)

Muro

-Questa città è un labirinto.


Avrei potuto scegliere, per iniziare questo post, una qualsiasi altra delle citazioni davvero rappresentative di questo film, ma credo che questa, vuoi anche per l'affezione tutta mia per il tema del labirinto, sia quella che meglio può prestarsi a fare da filo conduttore per l'analisi di questo film.
Il film di Vicari, infatti, è un intreccio giocato sui contrasti: la camera puntata addosso ai corpi, la frammentazione del racconto che segue le vicende dei singoli, le inquadrature volutamente sgranate, il dipanarsi "a sciame" della trama, una specie di caleidoscopio innestato su una scena principale, che ruotando ci restituisce una verità diversa. 
L'infinitamente piccolo, la presa diretta, la vicinanza claustrofobica per raccontare qualcosa di talmente grave che tutt'ora, a processi conclusi e a luci spente, nello sconcerto che segue la visione, si fa fatica a prendere per vero.
Qualcosa di talmente grave che nemmeno Vicari riesce a padroneggiare al cento per cento, e forse è giusto così, forse solo l'imperfetto e l'umano, forse solo lo sconcerto possono riuscire a scuotere davvero, ad accomunare, regista, attori e spettatori.
Corpi battuti, sbattuti contro i muri di una ragione che, comunque, filo rosso sangue, riesce ad emergere prepotente, a colpire il cuore come quella coltellata mai data, quell'aggressione mai avvenuta, quella violenza che si è scatenata non perché ce ne fosse ragione ma solo perché non c'è stato uno Stato in grado di trattenerla.
Questa è la verità che racconta Vicari e questo è ciò che serve sapere, prima ancora dei fatti, per capire, per indignarsi, per spaventarsi, per arrabbiarsi.
Per svegliarsi.
Un film che è come magma, incandescente e privo di forma, ma solo perché era impossibile riuscire a dargliene una propria.
La "macelleria messicana" (termine che torna in un altro film strettamente collegato a questo, ACAB di  Stefano Sollima, che vi consiglio di recuperare) della scuola Diaz, trascinato come il corpo di una delle manifestanti nella caserma Bolzaneto, con sequenze che davvero nulla hanno da invidiare a quelle del film di cui si è parlato nel post precedente, Hunger (chissà mai se Vicari se ne è lasciato influenzare), è violenza che non ha vero scopo di esistere, pura nel suo odio primordiale per chi ha un'opinione diversa, e per questo deve essere marchiato come bestia da macello.
Zecca comunista, poliziotto assassino, e in mezzo ci sono gradi differenti che vengono calpestati, travolti, frullati senza rispetto o pietà.
Diaz è un film che lascia senza forze.
Eppure è uno di quei film di cui c'è un gran bisogno, perché se il labirinto dell'odio è una contrapposizione di muri, nulla come il Cinema (o l'Arte in genere) è in grado di abbatterli.

Ciò che resta alla fine.

giovedì 25 aprile 2013

Consigli cinematografici: Hunger (Steve McQueen, 2008)

Più che Scorsese e De Niro, io direi Fellini e Mastroianni.

A un certo punto della prima visione è scattato uno strano meccanismo di difesa: c'era la mano del Fassbender/Sands, ormai scheletrica, dalla quale un medico stava prelevando del sangue con una siringa.
Non era una delle scene più terribili, né di quelle con un qualche valore simbolico, ma il contrasto tra quella mano così scheletrica e l'immagine mentale che avevo alzato a difesa, quella del Fassbender/attore perfettamente in salute, me ne ha richiamata alla mente subito un'altra, che si è rivelata preziosissima per capire la chiave visiva del film: la mano del Gesù della Pietà di Michelangelo.
Una volta occhiai nella biblioteca di Palazzo Venezia un volume che raccoglieva una serie di scatti in alta definizione dei dettagli della Pietà Vaticana e la foto che mi aveva colpito di più era quella della mano del Cristo, con le vene ancora in rilievo perché morto da poco, e di una morte temporanea, necessaria per lavare i peccati del genere umano.
Pietà è una parola che torna spesso in questo film, attraverso la voce fuori campo di Margareth Tatcher, che sprezzante minimizza la portata della decisione dell'Hunger Strike, lo sciopero della fame che, nel 1981, costerà la vita all'attivista dell'IRA Bobby Sands e ad altri suoi nove compagni.
Sands di cui McQueen fa un ritratto potente e delicato, realistico eppure in grado di far brillare con la purezza del diamante la sua determinazione, ritratto con le fattezze di un Cristo caravaggesco prestate da uno strepitoso Michael Fassbender, qui nell'interpretazione che ha fatto definitivamente decollare la sua carriera.
Fassbender/Sands è un Cristo moderno, capace di scacciare i mercanti dal tempio, di monopolizzare l'attenzione dei detenuti durante la messa, di far crollare come un castello di carta le argomentazioni di Padre Donovan, a cui comunica la decisione di ricorrere alla forma di protesta più estrema in una scena da Guinnes dei primati (letteralmente): diciotto minuti di camera fissa su un tavolo alle cui estremità ci sono due giocatori di tennis, che discutono del valore ultimo del sacrificio in un crescendo che, ripreso così senza interruzioni, riesce a rendere perfettamente la foga del flusso di coscienza di entrambi.
Uno spartiacque idealistico, e una pausa mentale tra i due grandi blocchi che costituiscono il film: il salto nel vuoto finale, la lenta agonia di Bobby Sands, la lotta quotidiana di un uomo determinato a morire, ma pur sempre uomo, che man mano che il corpo deperisce fa sempre più fatica a compiere anche i gesti più elementari come infilare la giacca del pigiama, ma che nonostante questo, e i dubbi, va avanti senza ripensamenti, fisicamente sempre più prigioniero, mentalmente sempre più libero, fino al volo finale, in cui la mente, dostoevskijanamente, vola libera in cielo mentre il corpo, o quel poco che ne resta, viene rinchiuso nell'ennesima gabbia, la bara, e solo allora gli viene concesso di "uscire a riveder le stelle".
Vale per Hunger quel che si è detto nel post precedente per Shame: il cinema di Steve McQueen è un cinema che chiede a chi vi partecipa di farsi carico del fardello del protagonista, in questo caso di far morire con lui qualche certezza, e far nascere dei dubbi, dei dilemmi etici.
Ma è soprattutto un film che ha chiesto al suo protagonista di essere Bobby Sands, di affamarsi come lui, di isolarsi e liberarsi mentalmente, di deperirsi fisicamente al punto da nutrirsi solo di una sardina e qualche lampone, per settimane, in un percorso molto più intenso che il "semplice" studio bibliografico.
Un lavoro di squadra, intenso e difficilissimo, che ha cementificato i rapporti umani tra i membri del cast: Fassbender e Liam Cunningham (padre Donovan) sono tutt'ora ottimi amici, la relazione umana e professionale con Steve McQueen è stata definita "quasi telepatica" ed è considerata una delle più interessanti nell'attuale panorama cinematografico.
Il ritratto che Steve McQueen traccia della "vita" nel carcere di Long Kesh, ribatezzato The Maze (il labirinto) riesce a mantenersi perfettamente in equilibrio tra denuncia, empatia e rappresentazione quasi documentaristica.
Questa lunga discesa all'inferno, infatti, per lo spettatore comincia con una lunga sequenza in cui veniamo condotti, letteralmente, nella prigione prima da una guardia e poi da un detenuto.
Seguiamo il loro quotidiano, osserviamo come l'orrore li plasmi, in un percorso davvero dantesco, che Steve McQueen iconizza nell'inquadratura dei cerchi perfettamente concentrici che un detenuto disegna sul muro con gli escrementi.



La pietà che Steve McQueen rivela e riserva anche alle guardie è un altro dei tratti che mi ha colpito molto del film: non è ipocrisia, o ricerca a tutti i costi del politicamente corretto, è proprio una convinzione intima, preludio a quella che in Shame riserverà a Brandon, cifra di una sensibilità enorme che solo un "Official War Artist" che ha girato film in Iraq e altre zone di guerra impara, applicandola con franchezza agli orrori compiuti dal proprio stesso paese.
Sempre come in Shame è magistrale l'uso dei suoni, del respiro di Fassbender/Sands che si fa sempre più lento, fino a spegnersi del tutto.
E sempre come in Shame il tocco di classe sono le atmosfere che richiamano capolavori dell'arte, come la già citata Pietà Vaticana, o Il Compianto del Cristo Morto di Andrea Mantegna.
Un film consigliatissimo, da vedere e rivedere.

 

martedì 2 aprile 2013

Consigli cinematografici: Shame (Steve McQueen, 2011)

Edward Hopper

Steve McQueen


Hopper, non l'avevo capito.
Guardavo il film e percepivo qualcosa di familiare, ma non ho capito cosa fino a che non ho recuperato un'intervista di Michael Fassbender.
Hopper, il suo modo di riprodurre gli interni, il suo modo di dare corpo alla solitudine.
Il punto di origine.
Interrogato sul perché avesse scelto di dedicare un film alla sesso-dipendenza, il regista Steve McQueen ha risposto che lo ha fatto perché è un tema poco noto ma soprattutto perché è un tema molto più complesso di quanto non si pensi a prima vista.
La droga o l'alcol (sempre parole di Steve McQueen) sono elementi non indispensabili per la nostra sopravvivenza, mentre il cibo e il sesso sì.
Contrariamente a quanto pensa la maggior parte delle persone, infatti, (e questo è un pensiero mio condiviso però anche dagli psicologi) i disturbi alimentari non nascono dall'esigenza di conformarsi a un modello predefinito ma hanno a che fare con l'esigenza di avere il pieno controllo della propria vita, che quando diventa difficile da gestire trova naturale sfogo nel corpo.
Una persona anoressica è una persona che ambisce al dominio totale di sé, dominio che passa attraverso il rifiuto quasi totale del cibo e l'ossessione per il peso.
In maniera abbastanza simile Brandon, il protagonista del film, trentenne dalla vita professionale di successo ma in realtà solo come un cane e con un carico di irrisolti esistenziali grosso quanto un grattacielo di Manhattan si rifugia in una gabbia fatta di orgasmi e fantasie sessuali di ogni tipo.
Steve McQueen è strepitoso nell'usare (letteralmente) il corpo e la fisicità prorompente di Michael Fassbender per raccontare una storia che, credetemi, di arrapante ha davvero poco per non dire nulla.
Perché in realtà è, appunto, una storia di senso di inadeguatezza, di vergogna, una storia dove ciò che sa di sporco non è tanto Brandon e la sua mania quanto ciò che gli ruota attorno.
Un mondo fatto di ipocrisia che stigmatizza i comportamenti di quello che è, alla fin fine, un uomo sentimentalmente libero che non fa male a nessuno salvo poi ignorare tutto il resto.
Questa è la "vergogna" del titolo.
Il cinema di Steve McQueen è un cinema che eviscera il tema proposto dal titolo con il fiato e la carne, le rughe attorno agli occhi, i capelli spettinati, le lenzuola sfatte da cui è possibile percepire il calore che lentamente svanisce.
Col suono del respiro, elemento che Steve McQueen ha sempre utilizzato in maniera magistrale fin dalle prime istallazioni di videoarte.
Non è trama, non è storia, non è concetto o giudizio morale.
I motivi che portano Brandon a rifugiarsi nel sesso non sono fondamentali, potrebbero essere quelli che vediamo o altri millantamila, quello che conta è ciò che Brandon prova, ciò che conta è il percorso di autocoscienza che lo spingerà (forse) a liberarsi del suo senso di inadeguatezza.
Brandon vive blindato dietro un vetro, tutti alla fine vedono ciò che è e lui può vedere gli altri per quello che sono.
Desidererebbe essere disperatamente parte di quel mondo ma non può, la sua dipendenza, la sua emotività ormai distorta dalle fantasie erotiche gli impediscono di vivere serenamente una qualsivoglia forma di relazione sentimentale.
Il vetro contro cui preme è quello del dolore che si rifiuta di affrontare, dei problemi da cui fugge perché troppo grandi da affrontare per una persona sola, il vetro contro cui preme è quello dell'incomunicabilità.
Della solitudine più profonda.
Parafrasando il film Brandon non è affatto una brutta persona.
È patetico, sì, a volte irritante, ma è comunque sempre meno nauseante di chi lo circonda.
È questa, la vera forza del film.
Il fatto che regista e attore abbiano lavorato in completa armonia nel tratteggiare con delicatezza e senza pregiudizi una figura che in mano allo sceneggiatore medio hollywoodiano sarebbe diventata un'accozzaglia di luoghi comuni.
Il fatto che alla fine Brandon non è altro che una specie di specchio in cui lo spettatore si riflette interrogandosi su quali siano le proprie dipendenze, i dolori da cui fugge, le richieste di aiuto che non ha il coraggio di formulare.
Shame non è un film, ma un viaggio.
Un viaggio da affrontare con lucidità e franchezza.
Richiede molto a chi lo guarda, ma in compenso offre qualcosa di preziosissimo: uno sguardo umile, empatico nel senso più nobile del termine, davvero una perla rara nel panorama cinematografico attuale fatto di alberi della vita e lezioni di come si sta al mondo.
Guardarlo potrebbe non essere semplice, sicuramente richiederà una seconda visione, ma fidatevi se vi dico che ne vale la pena.
C'è poco altro di ciò che è uscito in sala negli ultimi anni che mi sentirei di consigliare con altrettanta sicurezza.


giovedì 28 marzo 2013

La fine del mondo - Prologo


"Ecco che cosa siete. Ecco che cosa siete tutti quanti" disse Miss Stein. "Tutti voi giovani che avete fatto la guerra. Siete una generazione perduta."
-Ernest Hemingway


I trentenni non esistono più, adesso c'è l'adolescenza, la post-adolescenza e la fossa comune.”
-Zerocalcare



*






Prologo



Enrico non avrebbe saputo dire chi era più stupido tra loro due, se Angela che aveva insistito per indossare quelle scarpe così scomode o lui che si era scarabocchiato con la penna il palmo della mano.
Non avrebbe saputo dire nemmeno da quanto tempo stavano lì, in silenzio, su quella spiaggia battuta dal vento, con Angela che lo trascinava come fosse un sacco, arrancando sui tacchi che affondavano nella sabbia.
Sapeva solo che non sembravano, né si sentivano, gli invitati a un matrimonio, piuttosto due reduci di guerra, o due personaggi danteschi.
Paolo e Francesca, condannati però senza aver commesso alcuna colpa.
Disperati che vagano in un paesaggio surreale.
Che strano mese per sposarsi, gennaio, pensa Enrico mentre con uno strattone cerca di fermare Angela per costringerla a guardarlo negli occhi.
Sono pozze di un liquido scuro e caldo, cerchiati da un trucco troppo pesante, ostili ma al tempo stesso rassicuranti, come può esserlo solo una cosa che conosci troppo bene e da troppo tempo.
Enrico è perfino convinto di averci trovato dentro la sua stessa frustrazione, quella voglia di mandare tutto all'aria perché, tanto, nulla è andato per il verso giusto.
Sarebbe strano, dopo mesi trascorsi rivolgendosi appena la parola, ritrovarsi complici in un desiderio del genere.
Suona così piacevolmente sinistro che vorrebbe quasi correre il rischio di proporglielo ad alta voce.
Invece preferisce allungare una mano e raccogliere la guancia di Angela nel palmo, scaldarla per quel poco che può e arrossarla col contatto della pelle seccata dal salmastro.
La borsa di lei è piena di conchiglie che hanno raccolto insieme, lontani dal ristorante e dalla sua confusione, dai vini leggeri e dalle portate pesanti, dalla gerarchia dei posti e dai sorrisi forzati.
Nei capelli sente i granelli che le dita hanno lasciato nell'aggiustare una ciocca dietro l'orecchio.
Sorride imbarazzata, o forse soltanto stanca, e Enrico si chiede se non sia stata sempre questo, un fantasma di sale e sabbia.
La bacia e tra sé e sé la chiama Venere secca, angelo di salsedine caduto in un cielo diverso, domandandosi se quell'inquietudine tanto simile alla sua sia la percezione di vivere nel posto sbagliato, o il panico di chi sente di essere vicino al suo destino, e quando se lo sente cucito addosso capisce che in realtà è un sudario.
Perché i ricami del suo abito sono un segnale preciso, un richiamo al suo prossimo futuro da sposa, anche se la proposta ancora non è stata fatta e l'anello non è stato comprato.
È tutta lì, in quella tenuta inadatta alla spiaggia, la gabbia dorata delle buone intenzioni in cui Angela si è rinchiusa, la mole di promesse che si è fatta da quando ha quindici anni.
La ragazza dai sogni di marmo, che a lui sembravano così puliti e onesti.
Che male ci può essere nel desiderare qualcosa di proprio?
Una casa che avesse il loro odore, un auto per spostarsi senza rendere conto a nessuno, dei figli da tenere al riparo dalla cattiveria del mondo, un lavoro, soldi, una vita senza ricatti affettivi.
Che male c'era a proporla a lui, Enrico, l'uomo con la testa sulle nuvole, lo studente modello che aveva come obiettivo il dottorato di ricerca e uno studio tutto suo con le librerie alte fino al soffitto?
Che male c'è nel voler cercare un compromesso?
Enrico e Angela avevano sempre pensato che superato quell'ostacolo niente avrebbe potuto fermarli.
Si sbagliavano.
Perché l'ostacolo, col tempo, si è fatto ancora più alto e nuove difficoltà, nel corso degli anni, hanno contribuito a privarli delle forze.
Perché la vita è quello che è e non quello che si vorrebbe fosse.
Perché si cresce e si può scoprire di non essere più, o non essere stati affatto, le persone che si pensavano.
Perché alzarsi di domenica mattina alle sei per andare a un matrimonio fuori Roma, in riva a un mare gonfio di pioggia e cattivi pensieri, può essere deleterio per l'umore.
Enrico e Angela si prendono di nuovo per mano e ricominciano il cammino, stavolta in direzione opposta, non possono perdersi il taglio della torta.
Angela dice che ballerà scalza, cerca di nuovo le labbra di Enrico e lui, stringendola forte, capisce che è ubriaca, forse addirittura felice.
Forse è ubriaco anche lui e quei pensieri sono solo i sintomi di una sbornia triste.
Le scarpe di lei, anche se scomode e rovinate, sono belle e il disegno sul palmo della mano è in realtà un appunto preso per non sbagliare strada.
Forse non è vero che vogliono distruggere tutto, forse non è vero che si sentono frustrati e in gabbia.
Forse hanno solo un po' d'ansia, com'è normale che sia quando senti che stai cambiando pelle.
Eppure ci sono dei grumi scuri, sul fondo, fatti che pesano e non possono essere cancellati da una passeggiata, e nemmeno dal rum invecchiato che si concederà assieme allo sposo alla fine del pranzo.
Nodi d'angoscia che bucano lo stomaco ogni volta si infila tra le cosce di Angela.
Si chiama sesso senza amore, ed è il motivo per cui ancora non ha comprato quel maledetto anello.
Ed è un qualcosa che sta corrodendo anche Angela, se è vero come è vero che, prima di quel giorno, non ha mai bevuto fino ad ubriacarsi in vita sua.
Le sue labbra sono più buone quando non sanno di rossetto.
Sarebbe interessante assaggiarle col rum.
Questo prova a dirlo ad alta voce ma lei non gli risponde, non ha capito o se lo ha fatto preferisce ignorare.
La sagoma del ristorante si fa sempre più grande e minacciosa.
Qualcuno, affacciato alla vetrata, li chiama gridando e agitando le braccia.
Il lancio del bouquet, dicono, e quello della giarrettiera, ma ad Enrico non interessa, la sbornia triste sta prendendo il sopravvento e vorrebbe solo concentrarsi sulle mutandine di Angela.
Ma lei si è allontanata bruscamente, sta correndo scalza verso le sue amiche.
Ballerà sui tavoli e, dopo essere stata una fantasia di mare, nella sua testa si farà fantasia di rum.
E altri grumi di pietra si depositeranno sul fondo dello stomaco.

lunedì 21 gennaio 2013

Cinefilia, musica, ricordi, guerra

Truppe americane ad Anzio, gennaio 1944



Sessantanove anni fa, nella notte tra il 22 e il 23 gennaio del 1944, prendeva il via sulle coste di Anzio, la mia città, l'operazione Shingle, che aveva il compito di aiutare lo sfondamento della Linea Gustav e portare gli alleati a Roma. Pochi sanno che tra i caduti ci fu anche il padre di Roger Waters dei Pink Floyd, fatto che ispirò in parte i temi pacifisti di The Wall (le spoglie sono conservate nel cimitero di guerra inglese, non molto distante da casa mia). A questa operazione militare, a cui sono legati molti ricordi belli e brutti della mia famiglia e anche qualcuno della mia attività di guida turistica, è stato dedicato un film italo-americano con Robert Mitchum e Peter Falk, che in italiano si intitola Lo sbarco di Anzio ma in americano, semplicemente, Anzio. Ecco un dialogo tratto dal film e riportato da Wikipedia:



Dick Ennis: Che succede adesso? Quali sono le previsioni?

Generale Lesley: Oh vinceremo. Ci vorrà molto più tempo, molte più vite umane, ma Kesselring verrà respinto e il Generale Carlsom entrarà vittorioso a Roma.

Dick Ennis: E poi?

Generale Lesley: E poi sconfigeremo il nemico, vinceremo la guerra!

Dick Ennis: E dopo che succederà? Vuole dire che rimischieremo le carte e ricominceremo da capo?

Generale Lesley: Lei pensa che questo sia un gioco!?

Dick Ennis: Beh, dopotutto Generale, non è forse un gioco all'ultimo sangue?

Generale Lesley: Non una lotta per sopravvivere?

Dick Ennis: No! Non per sopravvivere né per assicurare un tetto né per... calmare la fame.

Generale Lesley: Ah... Ha trovato la risposta allora.

Dick Ennis: Credo proprio di sì Generale: l'uomo uccide perché gli piace.

Generale Lesley: Perché-gli-piace. Tutto qui?

Dick Ennis: Tutto qui! Perché ad uccidere ci prova gusto. Le guerre non risolvono mai niente: è la storia che ce lo insegna. Se si affronta un uomo con le armi alla mano, si vive più intensamente in quel momento che in qualsiasi altro momento della propria vita, perché si ha una paura folle e bisogna uccidere.

Generale Lesley: Ci uccidiamo l'un l'altro perché ci piace. È una condanna molto dura di tutta quanta l'umanità signor Ennis.

Dick Ennis: Sì, purtroppo lo è Generale, ma forse se l'accettassimo e l'ammettessimo davanti a noi stessi impareremmo a vivere insieme.

Generale Lesley: Speriamo.



domenica 20 gennaio 2013

Nidi

Casa mia, in un rarissimo giorno di neve.


In principio fu Splinder, un blog a cui mi legai tantissimo e che invece, quando la piattaforma ha chiuso, non mi sono curata nemmeno di salvare.
Perché nel frattempo erano subentrati dissapori di varia natura e i dissapori è sempre meglio lasciarli sepolti, a costo di sacrificare il buono.
Poi è venuto livejournal, tante opzioni che qui non ho, tante persone conosciute anche di persona, anche qui tanti rapporti persi per strada.
Dissapori, meno violenti ma pur sempre dissapori.
Poi è nata l'esigenza di aprire un blog dedicato a Cinema e Scrittura, un'idea che coltivavo da anni.
L'approdo a questa piattaforma è avvenuto per caso, e non so bene a cosa porterà.
Non so di preciso cosa sarà questa casa, non so quanto durerà.
Non so quanto sarà personale o quanto sarà dedicata ad articoli magari più seri.
Non so niente di niente, a parte che tentare non farà male a nessuno.
Intanto il nido è nato, riempirlo di affetti e cose sarà la parte più naturale e meno difficile.