Steve McQueen
Hopper,
non l'avevo capito.
Guardavo
il film e percepivo qualcosa di familiare, ma non ho capito cosa fino
a che non ho recuperato un'intervista di Michael Fassbender.
Hopper,
il suo modo di riprodurre gli interni, il suo modo di dare corpo alla
solitudine.
Il
punto di origine. Interrogato
sul perché avesse scelto di dedicare un film alla sesso-dipendenza,
il regista Steve McQueen ha risposto che lo ha fatto perché è un
tema poco noto ma soprattutto perché è un tema molto più complesso
di quanto non si pensi a prima vista. La
droga o l'alcol (sempre parole di Steve McQueen) sono elementi non
indispensabili per la nostra sopravvivenza, mentre il cibo e il sesso
sì. Contrariamente
a quanto pensa la maggior parte delle persone, infatti, (e questo è
un pensiero mio condiviso però anche dagli psicologi) i disturbi
alimentari non nascono dall'esigenza di conformarsi a un modello
predefinito ma hanno a che fare con l'esigenza di avere il pieno
controllo della propria vita, che quando diventa difficile da gestire
trova naturale sfogo nel corpo. Una
persona anoressica è una persona che ambisce al dominio totale di
sé, dominio che passa attraverso il rifiuto quasi totale del cibo e
l'ossessione per il peso. In
maniera abbastanza simile Brandon, il protagonista del film,
trentenne dalla vita professionale di successo ma in realtà solo
come un cane e con un carico di irrisolti esistenziali grosso quanto
un grattacielo di Manhattan si rifugia in una gabbia fatta di orgasmi
e fantasie sessuali di ogni tipo. Steve
McQueen è strepitoso nell'usare (letteralmente) il corpo e la
fisicità prorompente di Michael Fassbender per raccontare una storia
che, credetemi, di arrapante ha davvero poco per non dire
nulla. Perché
in realtà è, appunto, una storia di senso di inadeguatezza, di
vergogna, una storia dove ciò che sa di sporco non è tanto Brandon
e la sua mania quanto ciò che gli ruota attorno. Un
mondo fatto di ipocrisia che stigmatizza i comportamenti di quello
che è, alla fin fine, un uomo sentimentalmente libero che non fa
male a nessuno salvo poi ignorare tutto il resto. Questa
è la "vergogna" del titolo. Il
cinema di Steve McQueen è un cinema che eviscera il tema proposto
dal titolo con il fiato e la carne, le rughe attorno agli occhi, i
capelli spettinati, le lenzuola sfatte da cui è possibile percepire
il calore che lentamente svanisce.
Col
suono del respiro, elemento che Steve McQueen ha sempre utilizzato in
maniera magistrale fin dalle prime istallazioni di videoarte. Non
è trama, non è storia, non è concetto o giudizio morale. I
motivi che portano Brandon a rifugiarsi nel sesso non sono
fondamentali, potrebbero essere quelli che vediamo o altri
millantamila, quello che conta è ciò che Brandon prova, ciò che
conta è il percorso di autocoscienza che lo spingerà (forse) a
liberarsi del suo senso di inadeguatezza. Brandon
vive blindato dietro un vetro, tutti alla fine vedono ciò che è e
lui può vedere gli altri per quello che sono. Desidererebbe
essere disperatamente parte di quel mondo ma non può, la sua
dipendenza, la sua emotività ormai distorta dalle fantasie erotiche
gli impediscono di vivere serenamente una qualsivoglia forma di
relazione sentimentale. Il
vetro contro cui preme è quello del dolore che si rifiuta di
affrontare, dei problemi da cui fugge perché troppo grandi da
affrontare per una persona sola, il vetro contro cui preme è quello
dell'incomunicabilità. Della
solitudine più profonda. Parafrasando
il film Brandon non è affatto una brutta persona. È
patetico, sì, a volte irritante, ma è comunque sempre meno
nauseante di chi lo circonda. È
questa, la vera forza del film. Il
fatto che regista e attore abbiano lavorato in completa armonia nel
tratteggiare con delicatezza e senza pregiudizi una figura che in
mano allo sceneggiatore medio hollywoodiano sarebbe diventata
un'accozzaglia di luoghi comuni. Il
fatto che alla fine Brandon non è altro che una specie di specchio
in cui lo spettatore si riflette interrogandosi su quali siano le
proprie dipendenze, i dolori da cui fugge, le richieste di aiuto che
non ha il coraggio di formulare. Shame
non è un film, ma un viaggio. Un
viaggio da affrontare con lucidità e franchezza. Richiede
molto a chi lo guarda, ma in compenso offre qualcosa di
preziosissimo: uno sguardo umile, empatico nel senso più nobile del
termine, davvero una perla rara nel panorama cinematografico attuale
fatto di alberi della vita e lezioni di come si sta al
mondo. Guardarlo
potrebbe non essere semplice, sicuramente richiederà una seconda
visione, ma fidatevi se vi dico che ne vale la pena. C'è
poco altro di ciò che è uscito in sala negli ultimi anni che mi
sentirei di consigliare con altrettanta sicurezza.
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