martedì 2 aprile 2013

Consigli cinematografici: Shame (Steve McQueen, 2011)

Edward Hopper

Steve McQueen


Hopper, non l'avevo capito.
Guardavo il film e percepivo qualcosa di familiare, ma non ho capito cosa fino a che non ho recuperato un'intervista di Michael Fassbender.
Hopper, il suo modo di riprodurre gli interni, il suo modo di dare corpo alla solitudine.
Il punto di origine.
Interrogato sul perché avesse scelto di dedicare un film alla sesso-dipendenza, il regista Steve McQueen ha risposto che lo ha fatto perché è un tema poco noto ma soprattutto perché è un tema molto più complesso di quanto non si pensi a prima vista.
La droga o l'alcol (sempre parole di Steve McQueen) sono elementi non indispensabili per la nostra sopravvivenza, mentre il cibo e il sesso sì.
Contrariamente a quanto pensa la maggior parte delle persone, infatti, (e questo è un pensiero mio condiviso però anche dagli psicologi) i disturbi alimentari non nascono dall'esigenza di conformarsi a un modello predefinito ma hanno a che fare con l'esigenza di avere il pieno controllo della propria vita, che quando diventa difficile da gestire trova naturale sfogo nel corpo.
Una persona anoressica è una persona che ambisce al dominio totale di sé, dominio che passa attraverso il rifiuto quasi totale del cibo e l'ossessione per il peso.
In maniera abbastanza simile Brandon, il protagonista del film, trentenne dalla vita professionale di successo ma in realtà solo come un cane e con un carico di irrisolti esistenziali grosso quanto un grattacielo di Manhattan si rifugia in una gabbia fatta di orgasmi e fantasie sessuali di ogni tipo.
Steve McQueen è strepitoso nell'usare (letteralmente) il corpo e la fisicità prorompente di Michael Fassbender per raccontare una storia che, credetemi, di arrapante ha davvero poco per non dire nulla.
Perché in realtà è, appunto, una storia di senso di inadeguatezza, di vergogna, una storia dove ciò che sa di sporco non è tanto Brandon e la sua mania quanto ciò che gli ruota attorno.
Un mondo fatto di ipocrisia che stigmatizza i comportamenti di quello che è, alla fin fine, un uomo sentimentalmente libero che non fa male a nessuno salvo poi ignorare tutto il resto.
Questa è la "vergogna" del titolo.
Il cinema di Steve McQueen è un cinema che eviscera il tema proposto dal titolo con il fiato e la carne, le rughe attorno agli occhi, i capelli spettinati, le lenzuola sfatte da cui è possibile percepire il calore che lentamente svanisce.
Col suono del respiro, elemento che Steve McQueen ha sempre utilizzato in maniera magistrale fin dalle prime istallazioni di videoarte.
Non è trama, non è storia, non è concetto o giudizio morale.
I motivi che portano Brandon a rifugiarsi nel sesso non sono fondamentali, potrebbero essere quelli che vediamo o altri millantamila, quello che conta è ciò che Brandon prova, ciò che conta è il percorso di autocoscienza che lo spingerà (forse) a liberarsi del suo senso di inadeguatezza.
Brandon vive blindato dietro un vetro, tutti alla fine vedono ciò che è e lui può vedere gli altri per quello che sono.
Desidererebbe essere disperatamente parte di quel mondo ma non può, la sua dipendenza, la sua emotività ormai distorta dalle fantasie erotiche gli impediscono di vivere serenamente una qualsivoglia forma di relazione sentimentale.
Il vetro contro cui preme è quello del dolore che si rifiuta di affrontare, dei problemi da cui fugge perché troppo grandi da affrontare per una persona sola, il vetro contro cui preme è quello dell'incomunicabilità.
Della solitudine più profonda.
Parafrasando il film Brandon non è affatto una brutta persona.
È patetico, sì, a volte irritante, ma è comunque sempre meno nauseante di chi lo circonda.
È questa, la vera forza del film.
Il fatto che regista e attore abbiano lavorato in completa armonia nel tratteggiare con delicatezza e senza pregiudizi una figura che in mano allo sceneggiatore medio hollywoodiano sarebbe diventata un'accozzaglia di luoghi comuni.
Il fatto che alla fine Brandon non è altro che una specie di specchio in cui lo spettatore si riflette interrogandosi su quali siano le proprie dipendenze, i dolori da cui fugge, le richieste di aiuto che non ha il coraggio di formulare.
Shame non è un film, ma un viaggio.
Un viaggio da affrontare con lucidità e franchezza.
Richiede molto a chi lo guarda, ma in compenso offre qualcosa di preziosissimo: uno sguardo umile, empatico nel senso più nobile del termine, davvero una perla rara nel panorama cinematografico attuale fatto di alberi della vita e lezioni di come si sta al mondo.
Guardarlo potrebbe non essere semplice, sicuramente richiederà una seconda visione, ma fidatevi se vi dico che ne vale la pena.
C'è poco altro di ciò che è uscito in sala negli ultimi anni che mi sentirei di consigliare con altrettanta sicurezza.


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