sabato 14 settembre 2013

(S)Consigli cinematografici: To Rome With Love, di Woody Allen

Difendere l'indifendibile

Come si fa a scrivere la recensione di un film indifendibile?
Ok, ci sarebbe il trucchetto dell'insulto facile, del tiro al piccione, della lamentela e dell'indignazione da tastiera, ma quello lo sanno fare tutti e se siete capitati su questo blog è perché, magari, volete leggere qualcosa di diverso.
Sì, ma cosa?
Innanzitutto partiamo da un assunto: il problema principale di To Rome with Love non sta nei luoghi comuni, che quelli c'erano pure in Mindnight in Paris, anche se meglio camuffati.
Raccontare la realtà complessa delle grandi città europee non è mai stato l'obiettivo di Allen, l'occhio del regista newyorkese è sempre rivolto più all'uomo che al contesto.
Parigi è una cartolina migliore di Roma solo perché l'autore la conosce meglio.
No, il problema vero, grosso di questo film è la stanchezza: la sindrome di Ozymandias (e vai a capire perché in Italia la attribuiamo a Melpomene, perdendo la citazione di Shelley che pure nella capitale visse), che Allen appiccica ai suoi personaggi, è in realtà solo e soltanto sua.
La consapevolezza che tutto è effimero atterrisce il regista, affievolendo la sua vitalità fino a tramutarla in strisciante stanchezza.
From Love to Love è un film svogliato, che si trascina fino alla fine per inedia, con pochi guizzi.
Lascia in bocca un che di amaro, che si fa più persistente man mano che aumenta il tempo dalla visione, e forse è proprio questo amaro a non farmelo buttare via del tutto.
Perché è qualcosa che il film ti trasmette indipendentemente dalla sua sciatteria, la condizione endemica di tutti i personaggi..
Tutti rimpiangono qualcosa, e non sanno veramente godere dell'attimo, forse come Allen non ha saputo godere di Roma.
Il regista e le sue creature sono gli Ozymandias di cui noi spettatori contempliamo la miseria:

 I met a traveller from an antique land
Who said: Two vast and trunkless legs of stone
Stand in the desert. Near them on the sand,
Half sunk, a shatter'd visage lies, whose frown
And wrinkled lip and sneer of cold command
Tell that its sculptor well those passions read
Which yet survive, stamp'd on these lifeless things,
The hand that mock'd them and the heart that fed.
And on the pedestal these words appear:
"My name is Ozymandias, king of kings:
Look on my works, ye Mighty, and despair!"
Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away.

Rovine

Nota: resta da chiedersi, comunque, perché Parigi ispiri una trama basata sull'idea che di una città ciascuno può e deve prendersi il pezzetto che vuole mentre Roma, riferimento a Shelley a parte, ispiri solo malinconia e rovina. 


sabato 7 settembre 2013

Scrittura al Cinema: Profumo o di quando seguire pedissequamente un testo si rivela la scelta sbagliata

Avviso ai naviganti: "Scrittura al Cinema" passa da blog tematico a rubrica. Il perché è presto detto: non mi piace avere troppe casette virtuali e non mi piace che passi così tanto tempo tra un aggiornamento e l'altro. Sono una persona che ha interessi diversi e trovo soffocante dovermi concentrare su uno solo, trascurando gli altri. L'ho sempre pensato ma, ora, è giunto il tempo di farlo davvero: ho bisogno di tenere un blog "adulto", un posto che non sia solo un cestino da intasare con la spazzatura dei problemi personali ma una scatola dove conservare ricordi e riflessioni. Per fortuna i mesi appena trascorsi mi hanno permesso di accumulare materiale su cui scrivere in certo numero, cominciamo dal punto dove ci siamo interrotti. E, dunque, note sparse sul perché, secondo me, la versione cinematografica di Profumo di Suskind non ha funzionato.


Un tipo di cui si tornerà a parlare spesso su queste pagine


"I film raccontano storie tratte da vecchi romanzi, le immagini servono solo a illustrare testi. Bisogna spezzare il legame con la letteratura e rivisitare invece la grande pittura , fondendola col movimento cinematografico: è questo il vero 3D"


Il cervello, si sa, funziona per associazioni e, nonostante queste parole, pronunciate da Peter Greenway durante la lectio magistralis tenuta lo scorso aprile a Roma, non calzino proprio a pennello col discorso che sto per fare sono le prime che mi sono venute in mente qualche settimana fa quando, per puro caso, mi sono trovata a vedere per la seconda volta Profumo - Storia di un assassino di Tom Tykwer, adattamento dell'omonimo romanzo di Patrick Suskind.
Un libro difficilissimo da approcciare, tanto che prima di Tykwer avevano tentato di portarlo al cinema, ma senza successo, registi del calibro di Stanley Kubrick e Martin Scorsese.
Da dove nascono tutte queste difficoltà?
Partiamo da un fatto: l'autore, Patrick Suskind, è uno storico.
Lo si capisce benissimo senza nemmeno scomodare Wikipedia: ogni appiglio è buono per dipingere un ritratto vividissimo del contesto storico in cui le vicende dell'immaginario profumiere Jean-Batiste Grenouille sono ambientate, per ripercorrere le tappe dell'evoluzione dell'arte profumiera, per conoscerne i luoghi-simbolo, immaginarne le atmosfere.
La trama in sé (tutto sommato debole, per chi dovesse commettere l'errore di approcciarvisi da appassionato di crime) è soltanto un pretesto per raccontare un mondo davvero poco conosciuto, un fondale che finisce per anteporsi perfino ai personaggi che lo popolano.
Jean-Baptiste, la zecca umana che quasi non parla e che nemmeno quasi pensa, è il tramite che ci permette di riflettere su un qualcosa che diamo per scontato e invece non è scontato per niente: il tentativo, da parte dell'uomo, di addomesticare il mondo degli odori.
E qui veniamo al secondo problema, che poi è anche quello più grosso: il modo in cui Suskind costruisce l'universo olfattivo di Grenouille, fatto di immagini e costruzioni lessicali che funzionano solo in un testo scritto. 
È questo particolare aspetto del romanzo che, secondo me, ha fatto dire a Kubrick che era impossibile da adattare: per farlo bisognerebbe essere in grado, e qui scatta il collegamento con la citazione di Greenway, di creare una struttura visiva completamente nuova, interamente cinematografica, una soluzione visiva che vada in parallelo con quella descrittiva adottata da Suskind.
Sarebbe stato necessario, in pratica, fare una raffinata opera di traduzione che Tykwer non è stato, ahimè, in grado di fare, troppo legato al testo scritto, in maniera fin troppo pedissequa.
Il film racconta la storia di Grenouille ma non la fa vivere, e riesce a emozionare solo per via della bravura di Ben Whishaw, qui al primo ruolo cinematografico di una certa visibilità.
Altra interpretazione di una certa intensità è quella di Alan Rickman, che proprio con Whishaw dà vita ad una scena particolarmente emozionante, e guarda caso unico dettaglio assente nel romanzo.
Intendiamoci: visivamente il film è molto bello, la fotografia funziona molto bene ma certe soluzioni sono fin troppo ingenue, finendo per smorzare proprio ciò che nel romanzo ha forza.
Giocare con un senso come l'olfatto non è assolutamente semplice, l'abilità di Suskind è consistita nell'aver accettato e vinto questa sfida, dando non forma, bensì vita all'immateriale, all'aleatorio e all'impalpabile, e metaforicamente a ciò che è invisibile alla ragione.
Come Grenouille, che vive attraverso il naso ma senza avere odore.
Probabilmente, come dice Kubrick, non esiste un modo per trasformare questo in magia di celluloide e il tentativo di Tykwer, in tal senso, è ammirevole, ma il cinema non è fatto solo di buone intenzioni e se un regista decide di puntare forte, dovrebbe avere il coraggio di giocare la partita fino in fondo, rischiando il tutto e per tutto.
Altrimenti di innovativa rimane solo la buona volontà.