domenica 5 maggio 2013

Consigli cinematografici: Diaz - Don't clean up this blood (D. Vicari, 2012)

Muro

-Questa città è un labirinto.


Avrei potuto scegliere, per iniziare questo post, una qualsiasi altra delle citazioni davvero rappresentative di questo film, ma credo che questa, vuoi anche per l'affezione tutta mia per il tema del labirinto, sia quella che meglio può prestarsi a fare da filo conduttore per l'analisi di questo film.
Il film di Vicari, infatti, è un intreccio giocato sui contrasti: la camera puntata addosso ai corpi, la frammentazione del racconto che segue le vicende dei singoli, le inquadrature volutamente sgranate, il dipanarsi "a sciame" della trama, una specie di caleidoscopio innestato su una scena principale, che ruotando ci restituisce una verità diversa. 
L'infinitamente piccolo, la presa diretta, la vicinanza claustrofobica per raccontare qualcosa di talmente grave che tutt'ora, a processi conclusi e a luci spente, nello sconcerto che segue la visione, si fa fatica a prendere per vero.
Qualcosa di talmente grave che nemmeno Vicari riesce a padroneggiare al cento per cento, e forse è giusto così, forse solo l'imperfetto e l'umano, forse solo lo sconcerto possono riuscire a scuotere davvero, ad accomunare, regista, attori e spettatori.
Corpi battuti, sbattuti contro i muri di una ragione che, comunque, filo rosso sangue, riesce ad emergere prepotente, a colpire il cuore come quella coltellata mai data, quell'aggressione mai avvenuta, quella violenza che si è scatenata non perché ce ne fosse ragione ma solo perché non c'è stato uno Stato in grado di trattenerla.
Questa è la verità che racconta Vicari e questo è ciò che serve sapere, prima ancora dei fatti, per capire, per indignarsi, per spaventarsi, per arrabbiarsi.
Per svegliarsi.
Un film che è come magma, incandescente e privo di forma, ma solo perché era impossibile riuscire a dargliene una propria.
La "macelleria messicana" (termine che torna in un altro film strettamente collegato a questo, ACAB di  Stefano Sollima, che vi consiglio di recuperare) della scuola Diaz, trascinato come il corpo di una delle manifestanti nella caserma Bolzaneto, con sequenze che davvero nulla hanno da invidiare a quelle del film di cui si è parlato nel post precedente, Hunger (chissà mai se Vicari se ne è lasciato influenzare), è violenza che non ha vero scopo di esistere, pura nel suo odio primordiale per chi ha un'opinione diversa, e per questo deve essere marchiato come bestia da macello.
Zecca comunista, poliziotto assassino, e in mezzo ci sono gradi differenti che vengono calpestati, travolti, frullati senza rispetto o pietà.
Diaz è un film che lascia senza forze.
Eppure è uno di quei film di cui c'è un gran bisogno, perché se il labirinto dell'odio è una contrapposizione di muri, nulla come il Cinema (o l'Arte in genere) è in grado di abbatterli.

Ciò che resta alla fine.

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