domenica 23 agosto 2015

Perdere una battaglia, ma non la guerra: un parere sulla seconda stagione di True detective

Io a volte gli appassionati di serie tv non li capisco: viene lanciato in pompa magna un poliziesco ad alto budget, cast, regia e fotografia cinematografiche, la presunzione di proporre un mix di classici del genere condendoli con filosofia rubata altrove.
Il pubblico impazzisce.
Poi la serie si gioca la carta dell'azzardo, ogni stagione si propone uno scenario nuovo, dalla lentezza di un'indagine a due si passa a un complesso intreccio di destini e personaggi, si sfronda un po' di retorica, si rimane concentrati sull'essenziale, si lavora di fino.
E il pubblico, stavolta, storce il naso.
Lo dico senza mezzi termini: io la prima stagione di True detective ho iniziato a prenderla sul serio solo arrivati alla scena del re-incontro tra Rust e Marty. Prima di allora tanta perplessità, al netto di alcune cose buone (McConny in stato di grazia soprattutto).
Il caso era debole e confuso, i continui salti temporali snervavano un po', certe trovate come le visioni di Rust erano davvero fastidiose: ci fossero stati attori meno bravi non sarei arrivata in fondo.
Poi, per carità, gli episodi finali hanno ribaltato il giudizio, quelli che mi sembravano difetti si sono rivelate scelte vincenti, la chiusura è stata a lieto fine ma non retorica.
Ho amato Rust Cohle per il fatto che ci è stato presentato come un figo quando è sempre stato solamente un miserabile, e ho amato Marty perché è stato un miserabile capace di assumersi le responsabilità dei suoi sbagli.
In questa seconda stagione lo schema mi è sembrato molto simile: Pizzolatto si è preso il suo tempo per disporre le pedine sulla scacchiera e creare l'intreccio, utilizzando la gabbia creata per la prima stagione ma riempiendola con contenuti più concreti.
E ambiziosi.
Non dovrebbe essere sfuggito, infatti, allo spettatore che ha fatto il liceo classico il riferimento ad Antigone e, in generale, i temi e i dilemmi propri della tragedia classica, declinati in un contesto stavolta molto più realistico (Vinci non si chiama proprio così ma esiste per davvero e sì, è un posto dove il potere si tramanda di padre in figlio): la seconda stagione di True detective è una storia di perdenti.
Semyon, Velcoro, Woodrugh, Bezzerides sono quattro personaggi che si trovano coinvolti in una guerra in cui non hanno mai davvero avuto la possibilità di vincere.
Ciascuno di loro, quando se ne rende conto, deve fare i conti con se stesso e gettarsi il passato alle spalle.
Solo chi avrà il coraggio di andare in fondo, senza mentire o cedere, avrà la possibilità di sopravvivere.
La trama di questa seconda stagione è riassumibile così, il caso, che pure ha avuto uno sviluppo più intricato di quello della stagione precedente, in questo contesto ha svolto quasi più la funzione di mcguffin.
D'altronde è la sigla stessa a ribadirlo, con quel "The war is lost, the treaty signed" sussurrato dalla voce roca di Leonard Cohen in apertura.




A proposito della sigla, un altro paio di cose meritano di essere dette: la finezza del tagliare il testo della canzone prendendo le citazioni più calzanti alla puntata e, in generale, il fatto che racchiudesse in sé l'essenza della storia narrata.
Pizzolatto non è Dick Wolf, a lui interessa la verità degli uomini o la loro abilità nel nasconderla più che la giustizia, la legge e i conflitti che si accendono quando la seconda va contro la prima.
In questo senso il mito di Antigone viene ripreso nel suo aspetto essenziale, la scelta che si fa e il suo prezzo, ciò a cui si è disposti a rinunciare per fare la cosa giusta.
Il resto è quasi solo un contorno, anche se di ottima fattura.
Sinceramente spero che la HBO mantenga il punto e continui a scommettere su questa serie, il Grande Atlante delle contraddizioni d'America merita di essere completato.

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