“Un ponte sul
Giordano”: in un libro Amelia Boynton Robinson racconta il suo lungo cammino a
fianco di Martin Luther King che ha cambiato l’America
“Il fanatismo è una malattia emotiva che va trattata con
gentilezza e compassione”. In tempi difficili come i nostri (si pensi solo ai
recentissimi fatti di Parigi) parole come queste suonano insieme come un
balsamo e una carica. Soprattutto se a scriverle non è una donna qualunque, ma
una delle più straordinarie figure femminili della storia del ‘900. Una donna
piccola e apparentemente fragile che all’età di 94 anni ritiene ancora di avere
qualcosa da fare per migliorare il mondo. Una donna che si preoccupa ancora che
a qualcuno possa essere negato l’accesso alla sala dove si sta tenendo una
conferenza stampa in suo onore, perché in passato ha visto troppo spesso negare
l’accesso persino ad un posto a sedere sull’autobus a gente che aveva il suo
stesso colore di pelle. Una donna che ha avuto il privilegio di cambiare
l’America insieme a uomini straordinari del calibro di Martin Luther King. Amelia
Boynton Robinson è un’icona, un simbolo ma soprattutto una donna che ha ancora
molto da trasmettere ai giovani, suoi interlocutori privilegiati. Ha iniziato a
battersi per i diritti civili fin da giovanissima, a fianco della madre
attivista politica e primo segretario della Negro Chamber of Commerce di
Philadelphia e che ha sempre visto come il suo modello (“Tieni gli occhi
sull’obiettivo, non sulle difficoltà”, “Quando sai per certo che hai ragione
vai avanti senza guardare in faccia nessuno”, queste alcune delle perle di saggezza
che la Boynton Robinson
considera la sua eredità più importante), per poi proseguire a fianco del
Reverendo King e dell’Associazione per i Diritti Civili di cui casa sua era il
quartier generale. E’ la protagonista indiscussa di una delle date-simbolo
della storia degli Stati Uniti, il 7 marzo 1965, quella che verrà poi
ribattezzata la “Bloody Sunday”, la domenica di sangue, quella della marcia
“pacifica” (almeno nelle intenzioni dei neri) da Selma a Montgomery che costò
la vita a moltissimi attivisti, brutalmente picchiati dalla polizia. Tra di
essi anche una giovane donna che si salvò per puro miracolo fingendosi morta.
La foto di quel corpo martoriato fece il giro del mondo e Amelia Boynton Robinson
divenne un simbolo. Mentre osservava la polizia a cavallo del governatore
Wallace che si lanciava sui manifestanti fermi sul ponte Edmund Pettus ripensò
alle parole di una delle giovani che aveva conosciuto qualche tempo prima, una
ragazzina di neanche vent’anni che uscita dal carcere replicava così alla madre
che la rimproverava: “Mi sto battendo affinché tu possa avere diritto al voto.” Sotto il ponte, il fiume scorreva
lento, lento come il Giordano di un celebre spiritual: “Il fiume Giordano è freddo
e gelido, ma raffredda il corpo e non l’anima”. Versi da cui ha tratto
ispirazione per la sua autobiografia “Un ponte sul Giordano- la mia lunga
marcia al fianco di Martin Luther King”, edita in Italia dalla Palomar. Un
ponte solido che portò il Presidente Lyndon Johnson a firmare, dopo quel
tragico giorno il “Voting Right Act” che riconosceva ai neri il diritto al
voto. Da lì la Boynton Robinson
pensò di aver trovato un po’ di pace e di potersi dedicare alla sua nuova vita
a fianco del suo secondo marito. Ma, come ha raccontato in conferenza stampa,
Dio aveva deciso diversamente. Un tragico incidente in barca la lascia vedova
per la seconda volta facendole intuire che forse la sua missione non era ancora
terminata. Perché, come ha detto a proposito di Martin Luther King, “essere
uomini di Dio significa spendere i propri talenti per gli altri e non per se
stessi”. E così ha ripreso a lottare per un mondo più giusto. Lotta che la
porta oggi a gridare forte contro il Presidente Bush (che considera non un presidente
eletto, ma “selezionato”) e la globalizzazione che riduce in povertà le nazioni
più deboli, facendola schierare a fianco di Lyndon LaRouche e del suo movimento
che ritiene erede dello spirito e dei valori trasmessi dal Reverendo King. Una
donna straordinaria, fiera ed orgogliosa di esserlo (“una donna non vale né più
né meno di un uomo e la cosa più bella è quando entrambi si impegnano per la
stessa causa”, ha dichiarato) convinta che in ogni bambino che nasce ci sia un
potenziale genio che sta a noi riuscire a far sviluppare. Una donna che ha
lanciato un segnale di speranza in direzione della tolleranza e del rispetto
degli altri popoli, indicando in leggi più solide di quelle attuali il rimedio
per garantirla. Il suo libro è una serie di battaglie e di sconfitte, di
incontri con illustre personalità e figure “anonime” che hanno sacrificato la
vita per la causa in cui credevano, ma è anche un racconto di grandi vittorie.
Soprattutto, è la storia della non-violenza e del coraggio, indicate come le uniche
vere armi per una protesta efficace che porti a risultati concreti. Un racconto
incredibile che non può assolutamente lasciare indifferenti, con le sue storie
di crudeltà ed efferatezza (per non dire tortura) ai danni di attivisti
giovanissimi, “colpevoli” di aver preteso un mondo migliore per se stessi e per
i propri cari. Un libro che può insegnare tanto, molto più di qualche semplice
data, e che non dovrebbe assolutamente mancare nella biblioteca di ogni scuola.
Daniela Gervasi