giovedì 20 febbraio 2014

Dodici anni schiavo: i Sommersi e i Salvati nella Louisiana del 1850

Queen of the field

Perché non aspettare?
Questo mi ha chiesto mia madre stamattina: l'uscita in dvd, il passaggio su Sky.
Perché voler andare per forza in sala, quando sono mesi che ho salvata in memoria la mia bella copia sottotitolata?
Mi sono risposta che voglio fare un esperimento, che vedere il film in sé non mi basta, che stavolta la visione non avrebbe senso se non fosse accompagnata dallo studio attento delle espressioni facciali di chi (pochi, ci scommetto) mi si siederanno accanto.
Perché il confine che ci separa dai proprietari di piantagioni di Bayou Boeuf è molto più sottile di quanto immaginiamo, e riguarda più che altro l'idea che sia giusto che a fare i lavori di serie Z siano sempre quelli che parlano una lingua diversa dalla nostra.
A un certo punto della sua autobiografia Solomon Northup dice una cosa che mi ha impressionato molto, una cosa che avevo ritrovato identica ne I Sommersi e i Salvati di Primo Levi: lo schiavismo non è un fatto di crudeltà, quella semmai ne è una delle componenti principali, ma un fatto di cultura.
Cresci un uomo con la convinzione che lo schiavo valga più o meno quanto un mulo da soma, così come con l'idea che un ebreo vale quanto un ratto, e il bambino "che è padre dell'uomo" finirà per trattare lo schiavo come un mulo da soma, e l'ebreo come un ratto.
Il sadismo è una scorciatoia intellettuale.
Il primo motivo per cui le memorie di Solomon Northup meritano di essere lette sta nella lucidità con cui, una volta tornato uomo libero, ha saputo guardare indietro per ricostruire e analizzare la sua esperienza.
Il secondo motivo sta nell'importanza storica che quella ricostruzione ha, perché ci sono molti dettagli -anche e soprattutto pratici- delle condizioni di vita di uno schiavo che non solo non sono mai stati rappresentati altrove, ma che risultano difficili da immaginare.
E non sono necessariamente dettagli orrorifici, e qui sta il salto di qualità che, a occhio, McQueen sembra avere fatto: obiettivo è sempre stato obiettivo, ma anziché puntare tutto sulla violenza (che pure c'è) ha preferito lasciarsi guidare dalla pacatezza di Solomon, lasciando fuori la rabbia, e perfino parte di quella compassione che tanto era stata determinante in Hunger e Shame.
Compensando con quel surplus di introspezione che il punto di vista di uno scrivente dell'epoca, troppo emotivamente coinvolto, non è riuscito a dare (soprattutto nel condannare l'opportunismo del "buon padrone" Ford).
Il terzo motivo è Patsey, anzi le tristi storie di Eliza e Patsey.
Il quarto motivo è, infine, la possibilità di fare un confronto con i nostri tempi, aggiungere una prospettiva a quelle con cui di solito si osserva il razzismo più o meno implicito di chi ci circonda.
Per questo il film necessita di una visione in sala, perché il confronto in questo caso è importante.
La cultura schiavistica è ancora profondamente radicata nella nostra società, anche se ha assunto altre forme.
Come quelle ben descritto da Jean-Baptiste Malet in En Amazonie.
Ma questa è un'altra storia, e andrà raccontata un'altra volta.

mercoledì 5 febbraio 2014

Lettera postuma

Rimane il fatto che, in ogni modo, capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite... Beh, siete fortunati.

Se ti avessi permesso di restare ancora qui ti avrei parlato a lungo, di Pastorale Americana. Non che per ora possa dirtene chissà cosa, ma mi sarebbe piaciuto poterti mettere a parte di ogni nuova scoperta. Ma forse era destino che io arrivassi a questo libro dopo averti messa alla porta, altrimenti chissà come mi sarebbero scivolate addosso, queste parole, solo un po' d'umido che il tempo avrebbe fatto evaporare dalla pelle come il sole. Roth mi sta facendo bene a tanti livelli, a partire dal piacere che prova il cervello a confrontarsi con un testo così "difficile", così insidioso e lento eppure cristallino, duro, quel tipo di piacere che molti lettori (soprattutto molti lettori giovani) stanno lentamente abbandonando: il piacere di mettere da parte se stessi e lasciar fare completamente all'autore, sforzarsi di seguirlo, far arrampicare la mente sulle parole e fargliele penetrare e poi ancora fare in modo che esse penetrino in noi, mettano radici, ci cambino impercettibilmente. È così che agisce la cultura, strato dopo strato, libro dopo libro, scalata dopo scalata, è solo così che possiamo sfuggire all'inevitabile ripiegarsi dell'anima su se stessa e i propri problemi.
Il modo di tenere aperto il cervello ma non così tanto da farlo scivolare fuori dal cranio, come diceva quel tale.
Roth mi fa bene per questo, e mi fa bene perché mi ricorda che scrivere è innanzitutto far vivere un personaggio dentro se stessi e sulla pagina, e non solo e non tanto inseguire uno schema. Leggere e scrivere sono piacere e fatica, non solo piacere e non solo intrattenimento.
La soddisfazione è in quello che ti lasciano alla fine, l'impercettibile mutamento, la minuscola crepa, lo spigolo smussato.
Se ti avessi permesso di restare ancora qui forse ne avremmo parlato, anche se sempre mi rimane la sensazione che la tua traiettoria fosse destinata dall'inizio ad incontrare la mia solo per un breve tratto.
Non si lascia qualcuno solo per odio.
Ma ancora non ho tutte le parole necessarie per spiegartelo.

domenica 5 gennaio 2014

Consigli Cinematografici: Frances Ha

Allen. Ma anche un po' Truffaut.

Diventare adulti significa scendere a compromessi coi propri sogni, ma ci sono modi e modi di scendere a compromessi.
Lo sa bene Noah Baumbach che confeziona un autentico gioiello, ancora inedito in Italia (ma facilmente reperibile attraverso i canali-che-voi-sapete), che pesca da Allen e Truffaut pur mantenendo una sua identità ben precisa. Ed è proprio questo il suo più grande pregio.
Frances Ha(lladay) ha 27 anni e vive a New York con la sua migliore amica Sophie. Sono legatissime e coltivano entrambe grandi sogni: Frances è apprendista in una compagnia di ballo che ama e dove spera di diventare fissa, Sophie ha iniziato una promettente carriera nell'editoria.
Il loro percorso di vita non segue nessuno degli schemi tipici hollywoodiani: non c'è il duro lavoro che porta senza indugi alla meta né la tragedia che infrange il Sogno e costringe le eroine a reinventarsi.
C'è la vita, la realtà con le sue variabili, un talento non commisurato alla passione, scelte di vita poco felici ma perseguite con ostinazione, cadute, stupidaggini, vicoli ciechi e fondi toccati, falsa felicità di facciata, ma il tutto viene descritto con grande leggerezza, anzi, levità, con uno humour delicato e sensibile, e soprattutto con un occhio che non giudica, ma è empatico e favorisce ancora di più l'identificazione da parte dello spettatore.
Soprattutto: c'è l'arte del compromesso che non è sconfitta ma alternativa, anzi, la migliore delle alternative possibili, quella che se imboccata a testa bassa come la stessa di Frances nel finale del film, fa sentire perfettamente inseriti nel proprio mondo, consapevoli di sé e dei propri mezzi.
Frances Ha è un film che mostra due percorsi che in qualunque altra pellicola sarebbero stati in opposizione, ma che qui diventano complementari acquisendo ancora più credibilità: non ci sono vincitori e vinti, premi o punizioni, ci sono persone che crescono. Il cammino di Frances appare particolarmente luminoso perché lei è quella che ha saputo guardarsi dentro più a fondo, imparando a capire cosa mantenere intatto di se stessa e quali angoli, invece, smussare.
Frances Ha è un film apparentemente piccolo ma importante, perfetto per descrivere questa nostra epoca ma senza pretese di predica, quasi una controparte cinematografica e adulta del disco Pure Heroine di Lorde.
Se a livello politico le vie per uscire dalla crisi sembrano ancora lontane l'arte sta già scrivendo le prime regole per definire un nuovo sistema di valori: smetterla di inseguire sogni e modelli impossibili e lottare per preservare se stessi e la propria unicità.


sabato 2 novembre 2013

Punti fermi

Ogni tanto stare in silenzio fa bene.
È più facile individuare le priorità e ottimizzare le forze, senza contare quel surplus di riflessione che è sempre cosa gradita.
Perché bloggare? Per chi, soprattutto?
Me lo sono chiesto spesso, in questo periodo.
Avere un posto tutto mio mi è sempre piaciuto, Splinder prima e Livejournal poi sono state delle case dove ho lasciato un pezzo di cuore.
E non che stare lì sia stato sempre facile, anzi: spammer molesti, dissapori, strascichi di rancore, e poi ancora contatti che spariscono, stalker, troll etc... il blog si nutre del contatto con gli altri, ma il cibo che mangia è, talvolta, cibo avvelenato.
Non posso non sospettare che una piccola parte della mia gastrite debba ringraziare chi, in questi anni, ha contribuito a rendere l'atto di aprire caselle di posta/messaggi/chat più un sacrificio che un gesto quotidiano.
Per questo, una volta tanto, ho voluto provare a fare qualcosa di diverso, aprire un posto che servisse a me prima ancora che al contatto con gli altri.
Ma era un posto che concepivo come vetrina, più che come una casa, e questo ha procurato un'altra frattura.
Se si scrive per se stessi non si scrive per dovere, e se si scrive per dovere lo si deve fare bene, cercando sempre l'argomento più particolare, e la forma più originale per raccontarlo.
Scrivere un articolo è offrire agli altri la parte migliore di sé, mentre il blog comporta spesso l'esatto opposto, ovvero offrire la parte più impulsiva, emotiva, la meno attenta all'estetica del linguaggio.
Se vuoi una casa non puoi gestirla come faresti con un albergo a cinque stelle, al massimo come un accogliente bed&breakfast.
Che è la soluzione che vorrei provare ad applicare: non liste infinite di film/telefilm/libri assolutamente-da-vedere/leggere, non il mettersi in mostra in cerca di consensi, ma un conservare quanto di bello un'esperienza, quale che sia, mi ha lasciato.
E di queste esperienze, in questo periodo di silenzio, ne ho fatta più di qualcuna, per fortuna.
Il giorno del mio compleanno, pur con tutte le limitazioni del caso (partenza non prima dell'ora di pranzo, emicrania, caldo tropicale che ha reso più difficoltosi gli spostamenti a piedi e coi mezzi) mi sono regalata una visita alla Keats-Shelley House di Piazza di Spagna: un luogo che volevo visitare da tanto, e che non mi ha delusa, anzi.
Non solo mi ha lasciato un sacco di suggestioni che ancora, a distanza di quasi due mesi, mi porto dietro, ma mi ha anche permesso di acquistare il cartaceo di un romanzo, Abba Abba di Burgess, che si è rivelato davvero illuminante.
Se ora come sfondo dello smartphone ho il ritaglio di una foto che ho fatto alla Barcaccia è proprio per avere sempre dietro un ricordo di quella giornata.
Lo spirito di Keats l'ho sentito accanto, non tanto e non solo quando mi sono ritrovata per ben dieci minuti completamente sola nella sua stanza, dove mi sono sentita una ladra a scattare foto e dove comunque, subito dopo, sono stata in silenzio quasi senza muovermi, ma anche durante la pausa di lettura che mi sono concessa sul Pincio, con una granita alla menta a farmi compagnia.
Perfino dentro Trinità de' Monti ho sentito la sua risata, quando credevo che il custode volesse aiutarmi ad accendere la candela e invece era venuto a dirmi di mettere uno scialle sulle spalle, e sì che il vestito che portavo era privo di scollatura...
Roma mi ha fatto bene: non sono mai stata tipo da feste e regali in grande stile per cui scappare da lei in solitudine, godermi i miei tempi e la possibilità di parlare il minimo sindacale senza rendere conto a nessuno che non fossi io delle mie stesse scelte è più di quanto potessi sperare, visto anche come è andato l'anno.
Se ne sono accorti anche i miei a cena, me ne sono accorta io nei giorni successivi.
Roma è il primo scalino per arrivare a quella libertà di movimento a cui aspiro, e a cui devo mirare senza altri ripensamenti.
Sono stanca della vita che ho fatto in questi anni, dei troppi sì detti per quieto vivere.
Non posso essere l'unica a sacrificarsi, in questa casa, la mia salute e anche il mio carattere ne stanno risentendo.
Quando sono diventata una persona così invidiosa, cinica e disillusa?
Quando ho smesso di credere in me e non vedere più prospettive?
Quando mi sono persa di vista?
Io non lo so di preciso, ma se è vero che ammettere di avere un problema è il primo passo per risolverlo, io questo primo passo l'ho fatto.
E non voglio più fermarmi.

sabato 14 settembre 2013

(S)Consigli cinematografici: To Rome With Love, di Woody Allen

Difendere l'indifendibile

Come si fa a scrivere la recensione di un film indifendibile?
Ok, ci sarebbe il trucchetto dell'insulto facile, del tiro al piccione, della lamentela e dell'indignazione da tastiera, ma quello lo sanno fare tutti e se siete capitati su questo blog è perché, magari, volete leggere qualcosa di diverso.
Sì, ma cosa?
Innanzitutto partiamo da un assunto: il problema principale di To Rome with Love non sta nei luoghi comuni, che quelli c'erano pure in Mindnight in Paris, anche se meglio camuffati.
Raccontare la realtà complessa delle grandi città europee non è mai stato l'obiettivo di Allen, l'occhio del regista newyorkese è sempre rivolto più all'uomo che al contesto.
Parigi è una cartolina migliore di Roma solo perché l'autore la conosce meglio.
No, il problema vero, grosso di questo film è la stanchezza: la sindrome di Ozymandias (e vai a capire perché in Italia la attribuiamo a Melpomene, perdendo la citazione di Shelley che pure nella capitale visse), che Allen appiccica ai suoi personaggi, è in realtà solo e soltanto sua.
La consapevolezza che tutto è effimero atterrisce il regista, affievolendo la sua vitalità fino a tramutarla in strisciante stanchezza.
From Love to Love è un film svogliato, che si trascina fino alla fine per inedia, con pochi guizzi.
Lascia in bocca un che di amaro, che si fa più persistente man mano che aumenta il tempo dalla visione, e forse è proprio questo amaro a non farmelo buttare via del tutto.
Perché è qualcosa che il film ti trasmette indipendentemente dalla sua sciatteria, la condizione endemica di tutti i personaggi..
Tutti rimpiangono qualcosa, e non sanno veramente godere dell'attimo, forse come Allen non ha saputo godere di Roma.
Il regista e le sue creature sono gli Ozymandias di cui noi spettatori contempliamo la miseria:

 I met a traveller from an antique land
Who said: Two vast and trunkless legs of stone
Stand in the desert. Near them on the sand,
Half sunk, a shatter'd visage lies, whose frown
And wrinkled lip and sneer of cold command
Tell that its sculptor well those passions read
Which yet survive, stamp'd on these lifeless things,
The hand that mock'd them and the heart that fed.
And on the pedestal these words appear:
"My name is Ozymandias, king of kings:
Look on my works, ye Mighty, and despair!"
Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away.

Rovine

Nota: resta da chiedersi, comunque, perché Parigi ispiri una trama basata sull'idea che di una città ciascuno può e deve prendersi il pezzetto che vuole mentre Roma, riferimento a Shelley a parte, ispiri solo malinconia e rovina. 


sabato 7 settembre 2013

Scrittura al Cinema: Profumo o di quando seguire pedissequamente un testo si rivela la scelta sbagliata

Avviso ai naviganti: "Scrittura al Cinema" passa da blog tematico a rubrica. Il perché è presto detto: non mi piace avere troppe casette virtuali e non mi piace che passi così tanto tempo tra un aggiornamento e l'altro. Sono una persona che ha interessi diversi e trovo soffocante dovermi concentrare su uno solo, trascurando gli altri. L'ho sempre pensato ma, ora, è giunto il tempo di farlo davvero: ho bisogno di tenere un blog "adulto", un posto che non sia solo un cestino da intasare con la spazzatura dei problemi personali ma una scatola dove conservare ricordi e riflessioni. Per fortuna i mesi appena trascorsi mi hanno permesso di accumulare materiale su cui scrivere in certo numero, cominciamo dal punto dove ci siamo interrotti. E, dunque, note sparse sul perché, secondo me, la versione cinematografica di Profumo di Suskind non ha funzionato.


Un tipo di cui si tornerà a parlare spesso su queste pagine


"I film raccontano storie tratte da vecchi romanzi, le immagini servono solo a illustrare testi. Bisogna spezzare il legame con la letteratura e rivisitare invece la grande pittura , fondendola col movimento cinematografico: è questo il vero 3D"


Il cervello, si sa, funziona per associazioni e, nonostante queste parole, pronunciate da Peter Greenway durante la lectio magistralis tenuta lo scorso aprile a Roma, non calzino proprio a pennello col discorso che sto per fare sono le prime che mi sono venute in mente qualche settimana fa quando, per puro caso, mi sono trovata a vedere per la seconda volta Profumo - Storia di un assassino di Tom Tykwer, adattamento dell'omonimo romanzo di Patrick Suskind.
Un libro difficilissimo da approcciare, tanto che prima di Tykwer avevano tentato di portarlo al cinema, ma senza successo, registi del calibro di Stanley Kubrick e Martin Scorsese.
Da dove nascono tutte queste difficoltà?
Partiamo da un fatto: l'autore, Patrick Suskind, è uno storico.
Lo si capisce benissimo senza nemmeno scomodare Wikipedia: ogni appiglio è buono per dipingere un ritratto vividissimo del contesto storico in cui le vicende dell'immaginario profumiere Jean-Batiste Grenouille sono ambientate, per ripercorrere le tappe dell'evoluzione dell'arte profumiera, per conoscerne i luoghi-simbolo, immaginarne le atmosfere.
La trama in sé (tutto sommato debole, per chi dovesse commettere l'errore di approcciarvisi da appassionato di crime) è soltanto un pretesto per raccontare un mondo davvero poco conosciuto, un fondale che finisce per anteporsi perfino ai personaggi che lo popolano.
Jean-Baptiste, la zecca umana che quasi non parla e che nemmeno quasi pensa, è il tramite che ci permette di riflettere su un qualcosa che diamo per scontato e invece non è scontato per niente: il tentativo, da parte dell'uomo, di addomesticare il mondo degli odori.
E qui veniamo al secondo problema, che poi è anche quello più grosso: il modo in cui Suskind costruisce l'universo olfattivo di Grenouille, fatto di immagini e costruzioni lessicali che funzionano solo in un testo scritto. 
È questo particolare aspetto del romanzo che, secondo me, ha fatto dire a Kubrick che era impossibile da adattare: per farlo bisognerebbe essere in grado, e qui scatta il collegamento con la citazione di Greenway, di creare una struttura visiva completamente nuova, interamente cinematografica, una soluzione visiva che vada in parallelo con quella descrittiva adottata da Suskind.
Sarebbe stato necessario, in pratica, fare una raffinata opera di traduzione che Tykwer non è stato, ahimè, in grado di fare, troppo legato al testo scritto, in maniera fin troppo pedissequa.
Il film racconta la storia di Grenouille ma non la fa vivere, e riesce a emozionare solo per via della bravura di Ben Whishaw, qui al primo ruolo cinematografico di una certa visibilità.
Altra interpretazione di una certa intensità è quella di Alan Rickman, che proprio con Whishaw dà vita ad una scena particolarmente emozionante, e guarda caso unico dettaglio assente nel romanzo.
Intendiamoci: visivamente il film è molto bello, la fotografia funziona molto bene ma certe soluzioni sono fin troppo ingenue, finendo per smorzare proprio ciò che nel romanzo ha forza.
Giocare con un senso come l'olfatto non è assolutamente semplice, l'abilità di Suskind è consistita nell'aver accettato e vinto questa sfida, dando non forma, bensì vita all'immateriale, all'aleatorio e all'impalpabile, e metaforicamente a ciò che è invisibile alla ragione.
Come Grenouille, che vive attraverso il naso ma senza avere odore.
Probabilmente, come dice Kubrick, non esiste un modo per trasformare questo in magia di celluloide e il tentativo di Tykwer, in tal senso, è ammirevole, ma il cinema non è fatto solo di buone intenzioni e se un regista decide di puntare forte, dovrebbe avere il coraggio di giocare la partita fino in fondo, rischiando il tutto e per tutto.
Altrimenti di innovativa rimane solo la buona volontà.


giovedì 23 maggio 2013

Racconto: Pet Society


Note: questo racconto è stato pubblicato nel quarto numero della Rivista Letteraria Fralerighe Crime


Pet Society




“Lei ci va su Facebook, Maresciallo?”
L’uomo che stava parlando lo chiamavano Pozzo perché era nero nero come la morte, compresa la voce.
Tuttavia aveva la fedina penale meno sporca di quanto la gente credesse, tanto che, per esempio, non aveva mai ammazzato nessuno.
Ma in fondo al pozzo è buio, non si riesce a vedere e la gente non ha idea di cosa ci sia, laggiù.
Tira a indovinare, spesso sbagliando.
“Io no, ma so come funziona”, fu la risposta di Bruno Savelli.
Aveva imparato in fretta che, per ottenere quello che serve, bisogna dire il minimo indispensabile e lasciar fare all’interlocutore.
Pozzo voleva collaborare, ma voleva farlo a maniera sua.
Cosa gli costava assecondarlo?
“Scommetto che è per via di suo figlio”, proseguì imperterrito l'altro. “Anche per me è così. Ci sta appiccicato tutto il giorno, scambiandosi cazzate coi compagni di classe. A stare a sentire i ragazzini, però, si imparano un sacco di cose.”
Pozzo fumava toscanelli, proprio come lui.
Se ne accesero uno ciascuno, in silenzio, rintanati ognuno nel proprio spazio vitale, dove quel tratto d’unione era visto come una banale coincidenza.
Un paio di boccate e il Commissario tornò a parlare.
“A me l’idea di imparare dai ragazzini non piace, ma se lei dice che è possibile, sono curioso di ascoltare qualcuna di queste perle di saggezza.”
Pozzo sorrise, il Maresciallo pure, ma le coincidenze continuavano a restare solo coincidenze.
Lo spazio vitale, per gente come loro, ha il contorno preciso del ruolo assunto nella società, e i ruoli sono fatti come le divise, stoffa rigida e linee dritte.
Pozzo, invece, stava recitando la parte del criminale spavaldo.
“C’è una cosa che mi ha colpito, in particolare. Un gioco. Il gioco degli animaletti.”
Pet Society. È così che si chiama, se non ricordo male.”
“Sì, sì, proprio quello, grazie.”
“Che c’è di interessante in quel gioco?”
“Ognuno ha un animale, che è amico solo degli animali delle persone che sono amiche sue. All’inizio del gioco viene assegnata una casa piccola e con poche cose. La casa fa parte di un paese con tanti negozi, tutti con roba bella e costosa, e dalle case degli amici.”
"Come le villette che stanno costruendo qua intorno.”
Pozzo annuì come fanno i maestri di scuola durante le interrogazioni.
“Proprio questo è il punto. Un paese fatto di singole case e di pochi negozi, tutti di proprietà dei gestori del gioco. Sa come si guadagnano da vivere, gli animaletti? Facendo visite e favori agli amici. Non un vero lavoro, qui ti pagano se vai a trovare gli altri animaletti, se li pulisci quando i proprietari se ne scordano. E più amici hai e più soldi fai, rendendo più bella non la città stessa, ma l’interno di casa tua.”
"Che sta cercando di dirmi?
Il maresciallo Savelli aveva capito dove stavano andando a parare, e quel posto non gli piaceva affatto.
“Che lei può pure arrestarmi, Maresciallo, e arrestare quelli per cui lavoro, e i capi dei loro capi, ma non servirà a niente.”
Savelli sospirò annoiato, Pozzo non era affatto il primo mafioso che arrestava a parlare come il personaggio di un brutto film americano.
“Il sistema è stato creato, ci importa solo della nostra casa e di guadagnare facendo favori agli amici. Questa città è Pet Society, la controlla chi l’ha costruita, a darle informazioni io non ci guadagnerei niente, e tutto sommato nemmeno lei.”
Per questa parte Savelli dovette riconoscere a Pozzo una certa originalità.
Anche l’interpretazione era stata da Oscar, coi gomiti appoggiati alla scrivania e il toscanello penzolante all’angolo della bocca.
“Torni a casa da suo figlio, ci parli un po’ di più e si limiti a fare quel poco che le garantisce di intascare lo stipendio mensile.”
Qui il maresciallo decise che poteva bastare.
“La smetta.”, gli intimò.
Pozzo mantenne la posizione, imperturbabile.
“Lei ha un amico, lo Stato, che la fa guadagnare poco. È zozzo come la morte, ma si fa passare per uno splendore per non cacciare fuori le monete d’oro.”
Sembrava un venditore, più che un criminale.
Uno di quei bottegai vecchio stampo, che fanno finta di tenerti da parte il prodotto migliore.
Pensando questo al Maresciallo Savelli venne voglia di baccalà.
Sua madre lo andava sempre a comprare da un norcino secco e lungo, che gli faceva una paura tremenda.
Senza nemmeno rispondere a quella provocazione diede l’ordine di portare via Pozzo.
Rimasto solo si affacciò alla finestra, tormentando il mozzicone di toscanello coi denti.
Pensò al quartiere dove abitava, una lunga via isolata puntellata da bifamiliari giallo senape.
Il giorno in cui l’aveva comprata sapeva benissimo a chi stava regalando i suoi soldi, ma ignorò volutamente la questione per via del prezzo più basso che era riuscito a strappare all’agenzia immobiliare.
Non sapeva se la storia del gioco fosse vera, ma la sensazione che il suo lavoro gli procurava, negli ultimi tempi, era quella di essere un animaletto dai movimenti limitati.
Schiacciò il mozzicone in un posacenere a forma di Colosseo, regalo del figlio andato a Roma in gita scolastica l’anno prima.
La giornata era lunga, e forse con un caffè sarebbe apparsa meno dura.
Bruno Savelli non era uomo da dubbi universali: animaletto o no sapeva che l'unica cosa che poteva fare era continuare il proprio lavoro.
Di proposte come quella di Pozzo ne avrebbe ricevute altre: bastava ignorarle.
O almeno così sperava.